La tolleranza è sicuramente una delle
pietre miliari della massoneria: il massone è tollerante direi quasi
per definizione.
Sono belle parole, ma (c’è sempre un
ma) vanno ben precisate.
Intanto, dal punto di vista simbolico,
la tolleranza mi pare un’arte costruttiva. Ho due posizioni
contrastanti (mia e di un altro, per esempio, o entrambe dentro di
me) e debbo fare in modo di “superarle” giungendo ad una nuova
posizione che non sia nessuna delle due, ma che abbia in sé dell’una
e dell’altra. Per usare simboli a noi familiari, debbo costruire un
arco che si appoggia sulle due colonne, che così “sopportano”,
“tollerano” entrambe l’arco.
E fin qui è tutto bello.
Ma quando mi imbatto in un’altra
persona, o gruppo di persone, che tollerante non è, che faccio?
Ritornando al simbolo dell’arco, se
una delle due colonne non c’è o non è in grado o non vuole essere
di sostegno all’arco?
Beh, carissimi, non ho alternative: mi
metto in cerca di un’altra colonna, oppure rinuncio a costruire
l’arco.
Fuor di metafora, io penso che il
lavoro di loggia sia come il lavoro in un cantiere edile, cioè sia
una tipica attività di gruppo. Se il gruppo lavora male è il
singolo massone che viene obbligato a lavorare male. Ma se un singolo
massone lavora male o non vuole impegnarsi è tutto il gruppo che
viene frenato e lavora male. E quindi è necessario intervenire.
Il lavoro muratorio infatti si regge su
un equilibrio molto delicato e nella Loggia ci deve essere il gruppo
dei maestri più attenti che vigilano per evitare certe “cadute”.
Altrimenti purtroppo non resta che una
sola via, cercare un altro gruppo-loggia.
Perché la tolleranza non deve essere
sopportazione.
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