Questa primavera, senza nessun motivo apparente, ho ripreso il libro e ne ho iniziato la lettura. E questa volta è stata coinvolgente ed appassionante: ora ci sono passi evidenziati, noterelle scritte sui margini, altre note in post-it appiccicati qua e là. La lettura di un libro che mi prende è sempre (almeno per me) tendenziosa e manipolatoria; l’autore “mi parla” ed io rispondo con allusioni, paragoni e similitudini.
Lascio l’ambiente del romanzo per ritrovarmi in un “mio” ambiente, a me più consono e familiare. Insomma, il libro diventa “mio” e mi spinge a riprendere qualcosa e “cuocerla” nel mio paiolo. E ci ricamo sopra...
Arrivo
Ulisse lasciò l’auto al parcheggio
del Triángulo.
Poco lontano, qualche minuto a piedi, doveva incontrare Virgilio.
L’appuntamento era per la prima serata. Doveva essere solo,
possibilmente dopo una cena leggera, senza alcolici o bevande
stimolanti (ma non era una prescrizione, bensì un semplice
suggerimento). Da lì sarebbero andati nella città vecchia, in una
via poco lontano.
Ulisse riconobbe da lontano Virgilio.
Gli si avvicinò, un po’ agitato e un po’ attratto dal mistero
che in quel momento rappresentava per lui. Si incontrarono, si
salutarono; la guida gli chiese se era pronto. Avuta la necessaria
risposta positiva (ma non ne aveva mai dubitato), Virgilio guidò
Ulisse nella rete dei vicoli della città vecchia. Conosceva bene,
Ulisse, quella parte della città e si rese subito conto dei giri
viziosi che Virgilio gli fece fare. Ma non obiettò: forse – si
disse – anche quello in un certo senso “faceva parte del gioco”.
Finalmente giunsero ad una porticina,
che non ricordava di aver mai notato, pur conoscendo bene la via.
Virgilio suonò alla porta. La porta si aprì. Virgilio fece entrare
Ulisse, poi si ritrasse come per chiuderlo dentro. Ulisse si sentì
solo (forse era proprio questa la sensazione che volevano sentisse) e
guardò l’interno.
Tutto era in una penombra quasi
impenetrabile. Vide (meglio: intravvide) un minuscolo pianerottolo
dal quale partiva una rampa di scale in discesa, anche quella
fiocamente illuminata, come se avesse dovuto scendere nelle viscere
della terra; scesi alcuni scalini percepì una parete ed Ulisse
immaginò una svolta. E proprio lì, quando meno se lo aspettava,
scorse una nera figura, o meglio ne colse il contorno nero sul quasi
nero delle scale: quell’uomo indossava una veste nera e aveva un
cappuccio pure nero. Di lui si scorgevano le mani, che spiccavano
diafane in quella fitta penombra. Quell’ombra fece un solo e chiaro
gesto: Seguitemi. Ulisse continuò a scendere le scale dietro
l’inquietante personaggio.
Giunto in fondo fu condotto in uno
stanzino che solo per eufemismo potremmo dire sinistro: dimensioni
minuscole, appena sufficienti a contenere un piccolo tavolo nero con
sedia altrettanto nera, pareti nere con alcuni disegni e scritte
apparentemente incomprensibili che spiccavano bianche. Fu bruscamente
invitato a sedere, a redigere il proprio testamento e ad attendere il
ritorno di quell’oscuro prosseneta.
Già un testamento. Come fosse in punto
di morte, oppure un condannato in attesa dell’esecuzione.
Ma come diavolo aveva fatto a cacciarsi
in quella strana situazione! Strana? Alla faccia della stranezza.
Eravamo ormai oltre ogni limite di decenza; oltre ogni limite di
educazione e di rapporti sociali, umani, dissociali, disumani, e via
dicendo!
Eppure il caro amico Virgilio che
l’aveva messo in quella situazione gli pareva una persona seria,
posata, insomma tranquilla. Per niente dedito a quelle sceneggiate di
pessimo gusto.
Ed ora si trovava chiuso in quella che
pareva una specie di prigione. Uno stanzino tetro, seduto ad un
tavolino nero, una candela accesa come unica sorgente di luce e un
foglio piegato in modo strano con una intestazione lugubre:
Testamento del Profano.
(continua)
Nessun commento:
Posta un commento