mercoledì 26 agosto 2015

Arrivo e partenza 1

Ho dato a questo lavoro il titolo di un romanzo di Arthur Koestler verso il quale ho avuto un rapporto controverso. E’ una delle prime edizione degli Oscar Mondadori: uscì nel 1966 a 350 lire. Io lo acquistai come rimanenza di magazzino già in epoca euro (1 euro sta scritto a mano nella penultima di copertina). Iniziai a leggerlo, ma non andai oltre le prime pagine. E così, andando a vuoto altri successivi tentativi di lettura, il libro fu parcheggiato nella mia biblioteca, subito dopo Gli angeli caduti (altro romanzo di Koestler con il quale ho avuto una relazione contrastata) e prima di Buio a mezzogiorno (che oggi non c’è più, probabilmente per un prestito non restituito).

Questa primavera, senza nessun motivo apparente, ho ripreso il libro e ne ho iniziato la lettura. E questa volta è stata coinvolgente ed appassionante: ora ci sono passi evidenziati, noterelle scritte sui margini, altre note in post-it appiccicati qua e là. La lettura di un libro che mi prende è sempre (almeno per me) tendenziosa e manipolatoria; l’autore “mi parla” ed io rispondo con allusioni, paragoni e similitudini.

Lascio l’ambiente del romanzo per ritrovarmi in un “mio” ambiente, a me più consono e familiare. Insomma, il libro diventa “mio” e mi spinge a riprendere qualcosa e “cuocerla” nel mio paiolo. E ci ricamo sopra...


Arrivo

Ulisse lasciò l’auto al parcheggio del Triángulo. Poco lontano, qualche minuto a piedi, doveva incontrare Virgilio. L’appuntamento era per la prima serata. Doveva essere solo, possibilmente dopo una cena leggera, senza alcolici o bevande stimolanti (ma non era una prescrizione, bensì un semplice suggerimento). Da lì sarebbero andati nella città vecchia, in una via poco lontano.

Ulisse riconobbe da lontano Virgilio. Gli si avvicinò, un po’ agitato e un po’ attratto dal mistero che in quel momento rappresentava per lui. Si incontrarono, si salutarono; la guida gli chiese se era pronto. Avuta la necessaria risposta positiva (ma non ne aveva mai dubitato), Virgilio guidò Ulisse nella rete dei vicoli della città vecchia. Conosceva bene, Ulisse, quella parte della città e si rese subito conto dei giri viziosi che Virgilio gli fece fare. Ma non obiettò: forse – si disse – anche quello in un certo senso “faceva parte del gioco”.

Finalmente giunsero ad una porticina, che non ricordava di aver mai notato, pur conoscendo bene la via. Virgilio suonò alla porta. La porta si aprì. Virgilio fece entrare Ulisse, poi si ritrasse come per chiuderlo dentro. Ulisse si sentì solo (forse era proprio questa la sensazione che volevano sentisse) e guardò l’interno.

Tutto era in una penombra quasi impenetrabile. Vide (meglio: intravvide) un minuscolo pianerottolo dal quale partiva una rampa di scale in discesa, anche quella fiocamente illuminata, come se avesse dovuto scendere nelle viscere della terra; scesi alcuni scalini percepì una parete ed Ulisse immaginò una svolta. E proprio lì, quando meno se lo aspettava, scorse una nera figura, o meglio ne colse il contorno nero sul quasi nero delle scale: quell’uomo indossava una veste nera e aveva un cappuccio pure nero. Di lui si scorgevano le mani, che spiccavano diafane in quella fitta penombra. Quell’ombra fece un solo e chiaro gesto: Seguitemi. Ulisse continuò a scendere le scale dietro l’inquietante personaggio.

Giunto in fondo fu condotto in uno stanzino che solo per eufemismo potremmo dire sinistro: dimensioni minuscole, appena sufficienti a contenere un piccolo tavolo nero con sedia altrettanto nera, pareti nere con alcuni disegni e scritte apparentemente incomprensibili che spiccavano bianche. Fu bruscamente invitato a sedere, a redigere il proprio testamento e ad attendere il ritorno di quell’oscuro prosseneta.

Già un testamento. Come fosse in punto di morte, oppure un condannato in attesa dell’esecuzione.

Ma come diavolo aveva fatto a cacciarsi in quella strana situazione! Strana? Alla faccia della stranezza. Eravamo ormai oltre ogni limite di decenza; oltre ogni limite di educazione e di rapporti sociali, umani, dissociali, disumani, e via dicendo!

Eppure il caro amico Virgilio che l’aveva messo in quella situazione gli pareva una persona seria, posata, insomma tranquilla. Per niente dedito a quelle sceneggiate di pessimo gusto.

Ed ora si trovava chiuso in quella che pareva una specie di prigione. Uno stanzino tetro, seduto ad un tavolino nero, una candela accesa come unica sorgente di luce e un foglio piegato in modo strano con una intestazione lugubre: Testamento del Profano.
(continua)

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