Ecco la scelta della prova.
« Sei
disposto ad ammansire un cane furioso per dar prova della tua fede? »
Rabbrividii di orrore. « No, non ne sarei capace » esclamai
rifiutando.
« Sei disposto a dare
immediatamente alle fiamme per nostro ordine l’archivio della Lega
come ora il Fiduciario ne incendia una parte davanti ai tuoi occhi?
»...
«No,» gridai « nemmeno questo
saprei fare ». (88)
Quale prova, allora sceglierà il già
narratore?
« Cave, frater » esclamò il Capo
supremo, rivolgendosi a me. « Stai in guardia, impetuoso fratello!
Ho cominciato dai compiti più facili, per i quali basta un minimo di
fede. I compiti seguenti saranno via via più difficili. Rispondi:
Sei pronto e disposto a interrogare l’archivio sul conto di te
stesso? ». (88-89).
Mi sentii venir freddo e fermarsi il
respiro... Col respiro affannato risposi di sì. (89)
Già, interrogare gli archivi su se
stesso. Una specie di esame di coscienza che la pratica religiosa
imponeva quotidianamente al devoto. Ma non era devozione, era al
contrario un atto importante: rivedersi nelle azioni della giornata
imponeva il giudizio sul comportamento tenuto. Giudicarsi significa
vedersi con gli occhi altrui.
Salire sulla scala curva significa
aumentare il proprio orizzonte e cambiare punto di vista. Ma
significa che anche gli altri cambiano la loro visuale possono vedere
anche ciò che tu non vedi (banalmente ti guardano la schiena, che tu
non hai mai visto né vedrai mai).
Ed eccoci al giudizio di quell’archivio
onnicomprensivo. Che cosa vi era registrato di così tremendo?
Vidi poi il mio nome con questa
nota:
Chattorum r.
gest. XC.
civ. Calv. infid.
49.
Il foglietto mi tremava tra le mani.
Intanto i Superiori si alzarono l’uno dopo l’altro, mi strinsero
la mano; mi guardarono negli occhi e si allontanarono. L’Eccelso
Seggio rimase vuoto, per ultimo scese dal trono il Capo supremo, mi
porse la mano, mi guardò negli occhi, sorrise di quel suo pio e
servizievole sorriso da vescovo e per ultimo uscì dalla sala.
(89)
Ecco il già narratore solo con se
stesso, pronto a interrogare la propria coscienza sul suo
comportamento. Non è tanto il giudizio su di sé, già dato. Ma
vedere dove e come avesse sbagliato.
Si trattava del viaggio in Oriente e
precisamente del punto cruciale nella gola di Morbio Inferiore. Ed
ecco la prima scheda.
Il nostro gruppo, si leggeva, era
arrivato fino a Morbio dove aveva dovuto sostenere una prova, ma
senza esito felice: la scomparsa di Leo. Benché avessimo dovuto
lasciarci guidare dalle norme della Lega e benché ci fossero
precetti anche per il caso che uno dei gruppi rimanesse senza guida e
questi precetti ci fossero stati ripetuti all’inizio del viaggio,
tutto il nostro gruppo, dal momento in cui scoprimmo l’assenza di
Leo, aveva perduto la testa e la fede, si era ingolfato nei dubbi e
in vane discussioni e alla fine, contrariamente allo spirito della
Lega, il gruppo si era scisso e smembrato in più partiti.
(90-91).
La scomparsa del servitore Leo fu
dunque una prova. Ma quei viaggiatori persero la testa e la fede,
si trovarono cioè senza equilibrio tra Forza e Bellezza, con una
Forza squilibrata perché le discussioni accentuarono la
disgregazione del gruppo e una Bellezza squilibrata perché si
persero ad arzigogolare e fantasticare su questioni irrilevanti.
Mancò la realtà e mancarono in coesione; non ebbero la necessaria
fiducia degli uni verso gli altri, non tanto per mantenere in vita il
gruppo quanto perché solo in gruppo si poteva continuare. Non più
gruppo, smarrirono la via.
Anche altri due partecipanti a quel
viaggio tentarono di raccontarne la storia: Essi descrivevano i
fatti di quella giornata in maniera non molto diversa dalla mia,
eppure quanto sonavano diversi per me! (91)
Lesse in un manoscritto chiari
riferimenti a sé.
Quel musicista H. H. fu un esempio
lacrimevole. Pur essendo stato fino al giorno di Morbio Inferiore uno
dei più fedeli e convinti confratelli, benvoluto inoltre come
artista e, nonostante certe debolezze di carattere, uno dei soci più
vivaci, si abbandonò ora ad almanaccare, soffrì di depressioni, si
fece diffidente e nel suo ufficio peggio che trascurato,
incominciando a diventare intrattabile, nervoso, attaccabrighe. Un
giorno, quando rimase dietro agli altri, nessuno pensò di
interrompere la marcia per lui e di andarlo a cercare, tanto era
evidente la sua diserzione. (92-93).
Nell’altro la descrizione degli
stessi fatti è ancor più sorprendente.
Come l’antica Roma cadde con la
morte di Cesare o l’idea democratica universale con la diserzione
di Wilson, così la nostra Lega crollò con l’infelice giornata di
Morbio. Se in questo caso si può parlare di colpa e responsabilità,
il crollo va addebitato a due confratelli apparentemente innocui: al
musico H. H. e a Leo, uno dei servitori. Questi due, seguaci della
Lega fino allora fedeli e benvoluti, per quanto ignari della sua
importanza nella storia universale, questi due scomparvero un giorno
senza lasciar traccia e non senza appropriarsi oggetti preziosi e
documenti importanti, donde si può argomentare che i due miserandi
fossero comperati da potenti avversari della Lega... (93)
Tre resoconti (i due qui letti e quello
del nostro narratore dato all’inizio del racconto) dei medesimi
fatti per opera di testimoni oculari. “Io c’ero!” potevano ben
dire tutti e tre. Ma avevano raccontato le cose in tre modi del tutto
diversi.
Le nostre fatiche storiche erano
dunque vane, non era il caso di continuarle né di leggerle, si
poteva tranquillamente lasciare che si coprissero di polvere
nell’archivio. (93-94)
E se succede così per fatti storici,
che molti hanno vissuto, sui quali esistono documenti, pensiamo come
possono essere i resoconti di esperienze personali. Come si
spostava, si mutava e snaturava ogni cosa in questi specchi, com’era
beffardo e irraggiungibile il volto della verità che si nascondeva
dietro a tutte queste notizie, contronotizie e leggende! Che cos’era
vero? Che cosa era credibile? (94)
Ormai preparato a tutto, una furia
prese il già narratore: doveva sapere cosa l’archivio diceva di
lui.
Lasciamo la parola al narratore.
Mi trovai davanti allo scaffale che
recava il mio nome. Era una nicchia che, quando ne spostai la sottile
tendina, non mi presentò nulla di scritto. Conteneva soltanto una
figura, una vecchia e malconcia scultura di legno e di cera, a colori
pallidi, una specie di idolo barbarico che a prima vista mi fu del
tutto incomprensibile. Era una figura che veramente ne conteneva due,
in quanto avevano il dorso in comune. Mi soffermai a guardare stupito
e deluso. In quella vidi una candela fissata al fondo della nicchia
in un candeliere di metallo. C’erano fiammiferi, sicché accesi la
candela che illuminò la strana doppia figura. A poco a poco questa
mi si rivelò. Piano piano cominciai a intuire e poi a comprendere
che cosa volesse rappresentare. Rappresentava un personaggio – che
ero io — e il mio ritratto era spiacevolmente debole e semireale,
aveva lineamenti sbiaditi e in complesso un’espressione instabile,
fiacca, morente o suicida, sicché sembrava quasi un’opera di
scultura che fosse intitolata « Caducità » oppure « La
decomposizione » o qualcosa di simile. L’altra figura
invece, che era unita alla mia, era tutta florida di colori e di
forme e, mentre incominciavo a indovinare a chi somigliasse, cioè al
servitore e Capo supremo Leo, scorsi anche un’altra candela fissata
alla parete e accesi anche quella. Così vidi il doppio personaggio,
che alludeva a me e a Leo, non solo diventare più evidente e
somigliante, ma notai pure che la superficie delle figure era
trasparente e si poteva vederne l’interno come si vede attraverso
il vetro d’una bottiglia o di un vaso. E nell’interno dei
personaggi vidi muoversi qualcosa, muoversi adagio con infinita
lentezza, come si muove un serpe addormentato. Qualche cosa stava
succedendo, come un fluire, uno sciogliersi lentissimo ma
ininterrotto: dal mio ritratto qualcosa si scioglieva o fluiva
passando nel ritratto di Leo, e così potei notare che la mia
immagine stava per donarsi sempre più a Leo e per effondersi, per
alimentarlo, e rafforzarlo. Col tempo l’intera sostanza sarebbe
probabilmente passata da una delle immagini nell’altra e ne sarebbe
rimasta una sola: Leo. Egli doveva crescere, io dovevo diminuire.
(94-96)
La prima chiave di lettura è certo
immediata: I personaggi di opere poetiche sono di solito più vivi
e reali dei loro poeti (96)
Ma un finale
ridotto così mi delude. Non riesco ad immaginare che tutto debba
terminare così banalmente: il personaggio, Leo, creato dal narratore
(H. H.) col trascorrere del tempo diverrà letterariamente grande e
l’autore in carne ed ossa scomparirà.
Penso anche che la lettura di qualunque
opera letteraria sia anche un colloquio che il lettore ha con chi
scrisse, per cui io spiego e interpreto col mio sentire ciò che
leggo oggi e fu scritto ieri. Forzo le intenzioni del narratore?
Forse, ma è questione che non mi interessa: a me preme che una
lettura lasci un segno in me, se possibile.
Qui preferisco interpretare la “doppia
statuina” con Leo che “assorbe” HH (tanti direbbero,
negativamente, vampirizza) come HH che diventerà Leo, conquistando
il suo “doppio”, una specie di suo alter ego completandosi e
dando vita a qualcosa di nuovo.
Intendo il Pellegrinaggio in Oriente
non racconto di un volo della fantasia ma spunto di un metaforico
“viaggio interiore” con il protagonista che è riuscito a
comprendere che la fantomatica Lega che tutto registra e pare
conoscere come comportarsi con ciascun suo aderente in realtà sia il
“vero” se stesso. Quando il protagonista “capirà”
necessariamente diventa uno dei Superiori della Lega, anzi il “Capo”
della Lega perché “lui” è la Lega.
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