domenica 11 novembre 2018

Pellegrinaggio in Oriente 12

Ecco la scelta della prova.

« Sei disposto ad ammansire un cane furioso per dar prova della tua fede? » Rabbrividii di orrore. « No, non ne sarei capace » esclamai rifiutando.
« Sei disposto a dare immediatamente alle fiamme per nostro ordine l’archivio della Lega come ora il Fiduciario ne incendia una parte davanti ai tuoi occhi? »...
«No,» gridai « nemmeno questo saprei fare ». (88)

Quale prova, allora sceglierà il già narratore?

« Cave, frater » esclamò il Capo supremo, rivolgendosi a me. « Stai in guardia, impetuoso fratello! Ho cominciato dai compiti più facili, per i quali basta un minimo di fede. I compiti seguenti saranno via via più difficili. Rispondi: Sei pronto e disposto a interrogare l’archivio sul conto di te stesso? ». (88-89).
Mi sentii venir freddo e fermarsi il respiro... Col respiro affannato risposi di sì. (89)

Già, interrogare gli archivi su se stesso. Una specie di esame di coscienza che la pratica religiosa imponeva quotidianamente al devoto. Ma non era devozione, era al contrario un atto importante: rivedersi nelle azioni della giornata imponeva il giudizio sul comportamento tenuto. Giudicarsi significa vedersi con gli occhi altrui.

Salire sulla scala curva significa aumentare il proprio orizzonte e cambiare punto di vista. Ma significa che anche gli altri cambiano la loro visuale possono vedere anche ciò che tu non vedi (banalmente ti guardano la schiena, che tu non hai mai visto né vedrai mai).

Ed eccoci al giudizio di quell’archivio onnicomprensivo. Che cosa vi era registrato di così tremendo?

Vidi poi il mio nome con questa nota:
Chattorum r. gest. XC.
civ. Calv. infid. 49.
Il foglietto mi tremava tra le mani. Intanto i Superiori si alzarono l’uno dopo l’altro, mi strinsero la mano; mi guardarono negli occhi e si allontanarono. L’Eccelso Seggio rimase vuoto, per ultimo scese dal trono il Capo supremo, mi porse la mano, mi guardò negli occhi, sorrise di quel suo pio e servizievole sorriso da vescovo e per ultimo uscì dalla sala. (89)

Ecco il già narratore solo con se stesso, pronto a interrogare la propria coscienza sul suo comportamento. Non è tanto il giudizio su di sé, già dato. Ma vedere dove e come avesse sbagliato.
Si trattava del viaggio in Oriente e precisamente del punto cruciale nella gola di Morbio Inferiore. Ed ecco la prima scheda.

Il nostro gruppo, si leggeva, era arrivato fino a Morbio dove aveva dovuto sostenere una prova, ma senza esito felice: la scomparsa di Leo. Benché avessimo dovuto lasciarci guidare dalle norme della Lega e benché ci fossero precetti anche per il caso che uno dei gruppi rimanesse senza guida e questi precetti ci fossero stati ripetuti all’inizio del viaggio, tutto il nostro gruppo, dal momento in cui scoprimmo l’assenza di Leo, aveva perduto la testa e la fede, si era ingolfato nei dubbi e in vane discussioni e alla fine, contrariamente allo spirito della Lega, il gruppo si era scisso e smembrato in più partiti. (90-91).

La scomparsa del servitore Leo fu dunque una prova. Ma quei viaggiatori persero la testa e la fede, si trovarono cioè senza equilibrio tra Forza e Bellezza, con una Forza squilibrata perché le discussioni accentuarono la disgregazione del gruppo e una Bellezza squilibrata perché si persero ad arzigogolare e fantasticare su questioni irrilevanti. Mancò la realtà e mancarono in coesione; non ebbero la necessaria fiducia degli uni verso gli altri, non tanto per mantenere in vita il gruppo quanto perché solo in gruppo si poteva continuare. Non più gruppo, smarrirono la via.

Anche altri due partecipanti a quel viaggio tentarono di raccontarne la storia: Essi descrivevano i fatti di quella giornata in maniera non molto diversa dalla mia, eppure quanto sonavano diversi per me! (91)

Lesse in un manoscritto chiari riferimenti a sé.

Quel musicista H. H. fu un esempio lacrimevole. Pur essendo stato fino al giorno di Morbio Inferiore uno dei più fedeli e convinti confratelli, benvoluto inoltre come artista e, nonostante certe debolezze di carattere, uno dei soci più vivaci, si abbandonò ora ad almanaccare, soffrì di depressioni, si fece diffidente e nel suo ufficio peggio che trascurato, incominciando a diventare intrattabile, nervoso, attaccabrighe. Un giorno, quando rimase dietro agli altri, nessuno pensò di interrompere la marcia per lui e di andarlo a cercare, tanto era evidente la sua diserzione. (92-93).
Nell’altro la descrizione degli stessi fatti è ancor più sorprendente.
Come l’antica Roma cadde con la morte di Cesare o l’idea democratica universale con la diserzione di Wilson, così la nostra Lega crollò con l’infelice giornata di Morbio. Se in questo caso si può parlare di colpa e responsabilità, il crollo va addebitato a due confratelli apparentemente innocui: al musico H. H. e a Leo, uno dei servitori. Questi due, seguaci della Lega fino allora fedeli e benvoluti, per quanto ignari della sua importanza nella storia universale, questi due scomparvero un giorno senza lasciar traccia e non senza appropriarsi oggetti preziosi e documenti importanti, donde si può argomentare che i due miserandi fossero comperati da potenti avversari della Lega... (93)

Tre resoconti (i due qui letti e quello del nostro narratore dato all’inizio del racconto) dei medesimi fatti per opera di testimoni oculari. “Io c’ero!” potevano ben dire tutti e tre. Ma avevano raccontato le cose in tre modi del tutto diversi.

Le nostre fatiche storiche erano dunque vane, non era il caso di continuarle né di leggerle, si poteva tranquillamente lasciare che si coprissero di polvere nell’archivio. (93-94)

E se succede così per fatti storici, che molti hanno vissuto, sui quali esistono documenti, pensiamo come possono essere i resoconti di esperienze personali. Come si spostava, si mutava e snaturava ogni cosa in questi specchi, com’era beffardo e irraggiungibile il volto della verità che si nascondeva dietro a tutte queste notizie, contronotizie e leggende! Che cos’era vero? Che cosa era credibile? (94)

Ormai preparato a tutto, una furia prese il già narratore: doveva sapere cosa l’archivio diceva di lui.

Lasciamo la parola al narratore.

Mi trovai davanti allo scaffale che recava il mio nome. Era una nicchia che, quando ne spostai la sottile tendina, non mi presentò nulla di scritto. Conteneva soltanto una figura, una vecchia e malconcia scultura di legno e di cera, a colori pallidi, una specie di idolo barbarico che a prima vista mi fu del tutto incomprensibile. Era una figura che veramente ne conteneva due, in quanto avevano il dorso in comune. Mi soffermai a guardare stupito e deluso. In quella vidi una candela fissata al fondo della nicchia in un candeliere di metallo. C’erano fiammiferi, sicché accesi la candela che illuminò la strana doppia figura. A poco a poco questa mi si rivelò. Piano piano cominciai a intuire e poi a comprendere che cosa volesse rappresentare. Rappresentava un personaggio – che ero io — e il mio ritratto era spiacevolmente debole e semireale, aveva lineamenti sbiaditi e in complesso un’espressione instabile, fiacca, morente o suicida, sicché sembrava quasi un’opera di scultura che fosse intitolata « Caducità » oppure « La decomposizio­ne » o qualcosa di simile. L’altra figura invece, che era unita alla mia, era tutta florida di colori e di forme e, mentre incominciavo a indovinare a chi somigliasse, cioè al servitore e Capo supremo Leo, scorsi anche un’altra candela fissata alla parete e accesi anche quella. Così vidi il doppio personaggio, che alludeva a me e a Leo, non solo diventare più evidente e somigliante, ma notai pure che la superficie delle figure era trasparente e si poteva vederne l’interno come si vede attraverso il vetro d’una bottiglia o di un vaso. E nell’interno dei personaggi vidi muoversi qualcosa, muoversi adagio con infinita lentezza, come si muove un serpe addormentato. Qualche cosa stava succedendo, come un fluire, uno sciogliersi lentissimo ma ininterrotto: dal mio ritratto qualcosa si scioglieva o fluiva passando nel ritratto di Leo, e così potei notare che la mia immagine stava per donarsi sempre più a Leo e per effondersi, per alimentarlo, e rafforzarlo. Col tempo l’intera sostanza sarebbe probabilmente passata da una delle immagini nell’altra e ne sarebbe rimasta una sola: Leo. Egli doveva crescere, io dovevo diminuire. (94-96)

La prima chiave di lettura è certo immediata: I personaggi di opere poetiche sono di solito più vivi e reali dei loro poeti (96)

Ma un finale ridotto così mi delude. Non riesco ad immaginare che tutto debba terminare così banalmente: il personaggio, Leo, creato dal narratore (H. H.) col trascorrere del tempo diverrà letterariamente grande e l’autore in carne ed ossa scomparirà.
Penso anche che la lettura di qualunque opera letteraria sia anche un colloquio che il lettore ha con chi scrisse, per cui io spiego e interpreto col mio sentire ciò che leggo oggi e fu scritto ieri. Forzo le intenzioni del narratore? Forse, ma è questione che non mi interessa: a me preme che una lettura lasci un segno in me, se possibile.

Qui preferisco interpretare la “doppia statuina” con Leo che “assorbe” HH (tanti direbbero, negativamente, vampirizza) come HH che diventerà Leo, conquistando il suo “doppio”, una specie di suo alter ego completandosi e dando vita a qualcosa di nuovo.
Intendo il Pellegrinaggio in Oriente non racconto di un volo della fantasia ma spunto di un metaforico “viaggio interiore” con il protagonista che è riuscito a comprendere che la fantomatica Lega che tutto registra e pare conoscere come comportarsi con ciascun suo aderente in realtà sia il “vero” se stesso. Quando il protagonista “capirà” necessariamente diventa uno dei Superiori della Lega, anzi il “Capo” della Lega perché “lui” è la Lega.

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