sabato 30 settembre 2017

La Fenice

Propongo una Tavola sulla quale la mia Loggia ha lavorato nella tornata prima della pausa estiva.
Un Fratello di Loggia era passato da pochi giorni all'Oriente Eterno e il caso ha voluto che la Loggia lavorasse su una tavola significativa, che lui avrebbe certo visto opportuna in quella circostanza: la Fenice.
Che il Fratello proponente la tavola fosse suo nipote è un altro caso singolare. E che contemporaneamente fosse mio figlio e che tutti insieme lavorassimo su un simbolo di speranza e di fiducia pochi giorni dopo la morte di mio padre e suo nonno è pure un altro caso.
Troppi casi tutti in una volta...
Tra poche settimane la Loggia ricorderà il Fratello passato all'Oriente Eterno, ma il vero saluto nell'immediatezza del fatto fu la grande riflessione che facemmo proprio sulla Fenice.

 
Permettetemi di fare una premessa, che a onor del vero molto ha a che fare con questo tema. Come tutti sapete recentemente un nostro Fratello, mio nonno, ha terminato il suo percorso su questa terra. Non vi nascondo una certa fatica a definirlo “fratello”, in quanto per prima cosa egli fu mio nonno, anzi l’unico nonno che ho potuto conoscere (come uomo intendo), il cui legame di sangue sento come più forte sopra gli altri. Aldilà di tutto ciò che egli scriveva, del suo pensiero, del rispetto che sempre si guadagnò in vita e della sua estrema integrità in ciò che pensava e negli ideali che aveva fatto propri, io lo ricordo soprattutto come una persona energica, instancabile. Se qualcuno mi dovesse chiedere di trovare qualche parola per descriverlo, senza pensarci troppo sopra troverei sinonimi della sua personalità come forza, energia, fuoco. Fuoco che infiammava la passione per i suoi ideali e per il pensiero che lo contraddistingueva, per la determinazione nella sua ricerca, un fuoco che non abbandonò mai il suo essere, nemmeno negli ultimi istanti della sua vita. Lo ricordo quando con mio padre e i miei fratelli e chiunque volesse aggregarsi ci portava quasi settimanalmente in montagna a macinare chilometri di sentieri, i suoi sentieri, i suoi luoghi, che amava e che in qualche modo avevano sempre qualcosa a che fare con la guerra, quella che lui visse da ragazzo, quella delle lotte partigiane, quella di coloro che, sebbene con un pizzico di romanticismo che spero non guasti, vengono oggi ricordati come eroi che non esitarono un istante a sacrificare la propria vita per l’unico ideale per cui valesse la pena farlo, la Libertà. E ci raccontava sempre storie legate a questo luogo o a quella persona che lì era passata. Sapeva dove erano state combattute le battaglie su quei monti e sapeva descriverle nei minimi particolari, raccontando come da un lato avanzavano i nemici e da quel bosco sparavano i partigiani. Storie di uomini coraggiosi, come lo fu lui stesso d’altra parte. Mi affascinavano quei racconti, ma all’epoca ero solo un bambino e di ciò che mi stava forse anche inconsapevolmente trasmettendo me ne curavo poco, e pensavo venisse presto dimenticato. In seguito, diventato adulto, mi accorsi invece che qualcosa fu seminato e accadde che a distanza di molti anni, quando il suo corpo non riuscì più a tenere il passo della sua mente, tanto da costringerlo a rinunciare alla sua attività preferita che certo contribuì alla sua longevità non indifferente, in me crebbe all’improvviso l’impulso irrefrenabile di tornare con qualche amico in quelle valli, per esplorarne nuovamente i sentieri, anche se con un altro spirito, e mi scoprii totalmente innamorato della montagna, amore del quale furono complici anche le esperienze di arrampicata che da bambino feci con mio padre. Non solo, contemporaneamente mi appassionai, senza entrare nei dettagli, di letture legate alle guerre in genere, alle invasioni straniere, a popoli perseguitati e alle persone che combatterono, che non ebbero paura, ho potuto così riscoprire i più alti ideali umani e il giusto valore che oggi attribuisco alla Libertà. Non credo sia stato frutto di un caso, perchè avvenne proprio nel periodo in cui, ormai vedovo e serenamente consapevole della fine del suo viaggio, mio nonno stava lentamente abbandonando il suo corpo, ormai consumato dall’anziana età. Ci tengo a sottolineare la parola “serenamente”, perchè fino alla fine lui fu sereno. Già diversi anni prima mi era capitato di chiedergli cosa pensasse della morte, se avesse paura o timore di quel giorno in cui sarebbe passato oltre. Purtroppo non ricordo con precisione le parole che mi disse, ma ricordo bene che la sua risposta mi infuse un vago senso di serenità, quasi di sollievo. Probabilmente grazie a lui oggi ho un pò meno timore per quando sarà il mio, di momento.

Fra non molto diventerò padre, e tante sono le riflessioni che mi attraversano in questo periodo particolare della mia vita ma sopra tutte riconosco nell’esperienza della futura paternità il proseguimento della mia progenie e di quella della mia compagna, un proseguimento che tuttavia va molto oltre alla semplice trasmissione di caratteri genetici. Già, perchè la Fenice non solo muore, ma è capace di risorgere dai propri resti, quasi come se gli Antichi con questo mito cercassero un modo per sfuggire a ciò che ai loro occhi, e anche ai nostri, appare come ineluttabile. Forse non è un caso che questa tavola, che dovevo esporre tempo fa, dovesse essere presentata proprio ora, nella prima tornata all’indomani della partenza per l’Oriente Eterno di mio nonno. Sebbene infatti l’avessi preparata mesi or sono, ho sentito l’impulso di doverla modificare completamente.

Devo ammettere di aver incontrato molte difficoltà quando cominciai a riflettere su questo tema; per qualche motivo, a meno di non essermi dovuto cimentare in discorsi tanto dotti, quanto sterili allo stesso tempo circa la storia della mitologia egizia e dell’origine della leggenda, qualcosa mi impediva di entrare direttamente nel cuore di questo simbolo. Ci ho riprovato.

Il fatto stesso che miti paralleli alla Fenice siano presenti in svariate culture anche distanti fra loro se pur con declinazioni molto diverse, indica come la rinascita dopo la morte, sia un tema centrale nel pensiero degli uomni di ogni epoca e razza. Per gli Egizi, dai quali si ritiene abbia avuto origine il mito, la Fenice era quell’uccello favoloso con il quale si era manifestato Atum, il Dio creatore di sè stesso e che fu la prima forma di vita ad apparire e a posarsi sul primo lembo di terra emersa per poi, con il suo grido, rompere il Silenzio della Notte Primordiale. Assumeva per essi una valenza di Principio della Vita, della Luce e del Tempo, rappresentava il messaggero della Divinità e veniva raffigurata come un uccello simile ad un airone, animale quest’ultimo dal forte valore propiziatorio dato che gli aironi erano soliti posarsi a seguito delle periodiche piene del Nilo, e annunciavano quindi nuova fertilità per la terra e l’agricoltura. Arrivata alla fine della propria esistenza la Fenice era solita appartarsi, costruirsi un nido confortevole, e lasciarsi incendiare dai raggi del sole. Dal cumulo di cenere rimasto poteva così prendere vita una nuova Fenice la quale trasportava poi il nido e i resti del genitore a Eliopoli presso il tempio del sole.

Il termine fenice deriva dal greco e significa “rosso”, motivo per il quale con lo stesso appellativo venne designata l’antica popolazione mediterranea famosa, fra le altre cose, per la produzione del pigmento di identico colore. Per come è stato costruito, il mito della Fenice racchiude in sè tutti gli elementi: Acqua (perchè annunciava un nuovo periodo di fertilità dopo la piena del fiume), Aria (in quanto è il mezzo dentro il quale si librano gli uccelli), Terra (per via dei i suoi resti che si riducono in cenere), e il Fuoco, l’elemento principe che fa sì che dalla morte si arrivi alla rinascita. La Fenice può sintetizzare quindi nel suo intrinseco significato simbolico ogni viaggio che compie il profano durante la sua iniziazione nel Tempio e il Fuoco, che rappresenta il quarto e ultimo viaggio del recipiendario, ne annuncia la sua ideale trasformazione spirituale, da profano ad Apprendista; Trasformazione di colui che dopo aver redatto il proprio testamento ha idealmente attraversato la morte per rinascere sotto una nuova Luce. La Trasformazione infatti è l’elemento principale del mito, senza di essa non vi può essere alcuna rinascita e il fuoco ne rappresenta il mezzo con il quale essa si esaurisce.

Ad esempio nell’alchimia del susseguirsi delle stagioni il fuoco corrisponde, idealmente, al cambiamento, a una lenta evoluzione. Potremmo identificare nell’autunno e nell’inverno il tempo del riposo, un sonno antecedente alla trasformazione; il tempo della cura, del nido, della tana o del bozzolo nel quale rifugiarsi attendendo e ascoltando il respiro della terra, di quella terra che è madre e culla per conservare, crescere e nutrirsi; un pò come il tempo dell’inspirazione, dell'ossigenazione dei polmoni che serve a incamerare quell’energia vitale che consente all’organismo di crescere. La primavera e l’estate divengono così il tempo della rinascita, della vita che cresce ed esplode protendendosi verso il sole, il tempo della maturazione, del calore e dell’espirazione, del rosso, del fuoco.

Il Fuoco quindi può insegnarci in questa chiave la dimensione del tempo che scorre e permette di relazionarci positivamente ai cambiamenti, senza doverli subire passivamente ma diventandone artefici consapevoli. Il fuoco che cresce, che cambia e che si spegne lasciando sulla terra la cenere, come se fosse la traccia concreta di un’esperienza vissuta, può metaforicamente essere equiparato a una grande trasformazione che possiamo essere in grado di dominare con l’esperienza. Esperienza la quale è di fondamentale importanza farne tesoro, metabolizzare, lasciare che guidi le nostre azioni che ogni giorno saranno caratterizzate da crescente saggezza.

Analogamente infatti la Fenice trasporta i resti in cenere del suo genitore nel Tempio del Sole come se idealmente i suoi predecessori rappresentassero per lei una sorta di patrimonio, di coscienza storica da proteggere e depositare in un luogo sacro, anzi nel luogo più sacro, perchè non andasse perduto. Anche le teorie reincarnazioniste, secondo le quali l’uomo raccoglierebbe nella successione delle esistenze ciò che ha seminato durante ogni vita, attribuiscono alle sue azioni uno stretto rapporto con lo sviluppo progressivo della sua coscienza. Le sue azioni diventano quindi frutto della crescita spirituale via via acquisita, come somma delle esperienze nelle diverse vite che le religioni orientali chiamano ad esempio karma, perchè ogni esperienza, dalla più traumatica e dolorosa a quella più appagante, può migliorare l’uomo che ricerca. 
E con questa consapevolezza potrò andarmene quel giorno forse un po’ più sereno, come mio nonno.

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