Un Fratello di Loggia era passato da pochi giorni all'Oriente Eterno e il caso ha voluto che la Loggia lavorasse su una tavola significativa, che lui avrebbe certo visto opportuna in quella circostanza: la Fenice.
Che il Fratello proponente la tavola fosse suo nipote è un altro caso singolare. E che contemporaneamente fosse mio figlio e che tutti insieme lavorassimo su un simbolo di speranza e di fiducia pochi giorni dopo la morte di mio padre e suo nonno è pure un altro caso.
Troppi casi tutti in una volta...
Tra poche settimane la Loggia ricorderà il Fratello passato all'Oriente Eterno, ma il vero saluto nell'immediatezza del fatto fu la grande riflessione che facemmo proprio sulla Fenice.
Permettetemi di fare una premessa, che a onor del
vero molto ha a che fare con questo tema. Come tutti sapete
recentemente un nostro Fratello, mio nonno, ha terminato il suo
percorso su questa terra. Non vi nascondo una certa fatica a
definirlo “fratello”, in quanto per prima cosa egli fu mio nonno,
anzi l’unico nonno che ho potuto conoscere (come uomo intendo), il
cui legame di sangue sento come più forte sopra gli altri. Aldilà
di tutto ciò che egli scriveva, del suo pensiero, del rispetto che
sempre si guadagnò in vita e della sua estrema integrità in ciò
che pensava e negli ideali che aveva fatto propri, io lo ricordo
soprattutto come una persona energica, instancabile. Se qualcuno mi
dovesse chiedere di trovare qualche parola per descriverlo, senza
pensarci troppo sopra troverei sinonimi della sua personalità come
forza, energia, fuoco. Fuoco che infiammava la passione per i suoi
ideali e per il pensiero che lo contraddistingueva, per la
determinazione nella sua ricerca, un fuoco che non abbandonò mai il
suo essere, nemmeno negli ultimi istanti della sua vita. Lo ricordo
quando con mio padre e i miei fratelli e chiunque volesse aggregarsi
ci portava quasi settimanalmente in montagna a macinare chilometri di
sentieri, i suoi sentieri, i suoi luoghi, che amava e che in qualche
modo avevano sempre qualcosa a che fare con la guerra, quella che lui
visse da ragazzo, quella delle lotte partigiane, quella di coloro
che, sebbene con un pizzico di romanticismo che spero non guasti,
vengono oggi ricordati come eroi che non esitarono un istante a
sacrificare la propria vita per l’unico ideale per cui valesse la
pena farlo, la Libertà. E ci raccontava sempre storie legate a
questo luogo o a quella persona che lì era passata. Sapeva dove
erano state combattute le battaglie su quei monti e sapeva
descriverle nei minimi particolari, raccontando come da un lato
avanzavano i nemici e da quel bosco sparavano i partigiani. Storie di
uomini coraggiosi, come lo fu lui stesso d’altra parte. Mi
affascinavano quei racconti, ma all’epoca ero solo un bambino e di
ciò che mi stava forse anche inconsapevolmente trasmettendo me ne
curavo poco, e pensavo venisse presto dimenticato. In seguito,
diventato adulto, mi accorsi invece che qualcosa fu seminato e
accadde che a distanza di molti anni, quando il suo corpo non riuscì
più a tenere il passo della sua mente, tanto da costringerlo a
rinunciare alla sua attività preferita che certo contribuì alla sua
longevità non indifferente, in me crebbe all’improvviso l’impulso
irrefrenabile di tornare con qualche amico in quelle valli, per
esplorarne nuovamente i sentieri, anche se con un altro spirito, e mi
scoprii totalmente innamorato della montagna, amore del quale furono
complici anche le esperienze di arrampicata che da bambino feci con
mio padre. Non solo, contemporaneamente mi appassionai, senza entrare
nei dettagli, di letture legate alle guerre in genere, alle invasioni
straniere, a popoli perseguitati e alle persone che combatterono, che
non ebbero paura, ho potuto così riscoprire i più alti ideali umani
e il giusto valore che oggi attribuisco alla Libertà. Non credo sia
stato frutto di un caso, perchè avvenne proprio nel periodo in cui,
ormai vedovo e serenamente consapevole della fine del suo viaggio,
mio nonno stava lentamente abbandonando il suo corpo, ormai consumato
dall’anziana età. Ci tengo a sottolineare la parola “serenamente”,
perchè fino alla fine lui fu sereno. Già diversi anni prima mi era
capitato di chiedergli cosa pensasse della morte, se avesse paura o
timore di quel giorno in cui sarebbe passato oltre. Purtroppo non
ricordo con precisione le parole che mi disse, ma ricordo bene che la
sua risposta mi infuse un vago senso di serenità, quasi di sollievo.
Probabilmente grazie a lui oggi ho un pò meno timore per quando sarà
il mio, di momento.
Fra non molto diventerò padre, e tante sono le
riflessioni che mi attraversano in questo periodo particolare della
mia vita ma sopra tutte riconosco nell’esperienza della futura
paternità il proseguimento della mia progenie e di quella della mia
compagna, un proseguimento che tuttavia va molto oltre alla semplice
trasmissione di caratteri genetici. Già, perchè la Fenice non solo
muore, ma è capace di risorgere dai propri resti, quasi come se gli
Antichi con questo mito cercassero un modo per sfuggire a ciò che ai
loro occhi, e anche ai nostri, appare come ineluttabile. Forse non è
un caso che questa tavola, che dovevo esporre tempo fa, dovesse
essere presentata proprio ora, nella prima tornata all’indomani
della partenza per l’Oriente Eterno di mio nonno. Sebbene infatti
l’avessi preparata mesi or sono, ho sentito l’impulso di doverla
modificare completamente.
Devo ammettere di aver incontrato molte difficoltà
quando cominciai a riflettere su questo tema; per qualche motivo, a
meno di non essermi dovuto cimentare in discorsi tanto dotti, quanto
sterili allo stesso tempo circa la storia della mitologia egizia e
dell’origine della leggenda, qualcosa mi impediva di entrare
direttamente nel cuore di questo simbolo. Ci ho riprovato.
Il fatto stesso che miti paralleli alla Fenice siano
presenti in svariate culture anche distanti fra loro se pur con
declinazioni molto diverse, indica come la rinascita dopo la morte,
sia un tema centrale nel pensiero degli uomni di ogni epoca e razza.
Per gli Egizi, dai quali si ritiene abbia avuto origine il mito, la
Fenice era quell’uccello favoloso con il quale si era manifestato
Atum, il Dio creatore di sè stesso e che fu la prima forma di vita
ad apparire e a posarsi sul primo lembo di terra emersa per poi, con
il suo grido, rompere il Silenzio della Notte Primordiale. Assumeva
per essi una valenza di Principio della Vita, della Luce e del Tempo,
rappresentava il messaggero della Divinità e veniva raffigurata come
un uccello simile ad un airone, animale quest’ultimo dal forte
valore propiziatorio dato che gli aironi erano soliti posarsi a
seguito delle periodiche piene del Nilo, e annunciavano quindi nuova
fertilità per la terra e l’agricoltura. Arrivata alla fine della
propria esistenza la Fenice era solita appartarsi, costruirsi un nido
confortevole, e lasciarsi incendiare dai raggi del sole. Dal cumulo
di cenere rimasto poteva così prendere vita una nuova Fenice la
quale trasportava poi il nido e i resti del genitore a Eliopoli
presso il tempio del sole.
Il termine fenice deriva dal greco e significa
“rosso”, motivo per il quale con lo stesso appellativo venne
designata l’antica popolazione mediterranea famosa, fra le altre
cose, per la produzione del pigmento di identico colore. Per come è
stato costruito, il mito della Fenice racchiude in sè tutti gli
elementi: Acqua (perchè annunciava un nuovo periodo di fertilità
dopo la piena del fiume), Aria (in quanto è il mezzo dentro il quale
si librano gli uccelli), Terra (per via dei i suoi resti che si
riducono in cenere), e il Fuoco, l’elemento principe che fa sì che
dalla morte si arrivi alla rinascita. La Fenice può sintetizzare
quindi nel suo intrinseco significato simbolico ogni viaggio che
compie il profano durante la sua iniziazione nel Tempio e il Fuoco,
che rappresenta il quarto e ultimo viaggio del recipiendario, ne
annuncia la sua ideale trasformazione spirituale, da profano ad
Apprendista; Trasformazione di colui che dopo aver redatto il proprio
testamento ha idealmente attraversato la morte per rinascere sotto
una nuova Luce. La Trasformazione infatti è l’elemento principale
del mito, senza di essa non vi può essere alcuna rinascita e il
fuoco ne rappresenta il mezzo con il quale essa si esaurisce.
Ad esempio nell’alchimia del susseguirsi delle
stagioni il fuoco corrisponde, idealmente, al cambiamento, a una
lenta evoluzione. Potremmo identificare nell’autunno e nell’inverno
il tempo del riposo, un sonno antecedente alla trasformazione; il
tempo della cura, del nido, della tana o del bozzolo nel quale
rifugiarsi attendendo e ascoltando il respiro della terra, di quella
terra che è madre e culla per conservare, crescere e nutrirsi; un pò
come il tempo dell’inspirazione, dell'ossigenazione dei polmoni che
serve a incamerare quell’energia vitale che consente all’organismo
di crescere. La primavera e l’estate divengono così il tempo della
rinascita, della vita che cresce ed esplode protendendosi verso il
sole, il tempo della maturazione, del calore e dell’espirazione,
del rosso, del fuoco.
Il Fuoco quindi può insegnarci in questa chiave la
dimensione del tempo che scorre e permette di relazionarci
positivamente ai cambiamenti, senza doverli subire passivamente ma
diventandone artefici consapevoli. Il fuoco che cresce, che cambia e
che si spegne lasciando sulla terra la cenere, come se fosse la
traccia concreta di un’esperienza vissuta, può metaforicamente
essere equiparato a una grande trasformazione che possiamo essere in
grado di dominare con l’esperienza. Esperienza la quale è di
fondamentale importanza farne tesoro, metabolizzare, lasciare che
guidi le nostre azioni che ogni giorno saranno caratterizzate da
crescente saggezza.
Analogamente infatti la Fenice trasporta i resti in
cenere del suo genitore nel Tempio del Sole come se idealmente i suoi
predecessori rappresentassero per lei una sorta di patrimonio, di
coscienza storica da proteggere e depositare in un luogo sacro, anzi
nel luogo più sacro, perchè non andasse perduto. Anche le teorie
reincarnazioniste, secondo le quali l’uomo raccoglierebbe nella
successione delle esistenze ciò che ha seminato durante ogni vita,
attribuiscono alle sue azioni uno stretto rapporto con lo sviluppo
progressivo della sua coscienza. Le sue azioni diventano quindi
frutto della crescita spirituale via via acquisita, come somma delle
esperienze nelle diverse vite che le religioni orientali chiamano ad
esempio karma, perchè ogni esperienza, dalla più traumatica e
dolorosa a quella più appagante, può migliorare l’uomo che
ricerca.
E con questa consapevolezza potrò andarmene quel giorno
forse un po’ più sereno, come mio nonno.
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