Il mio mare magnum, la mia Ombra-Cripta, è in me
e io la “sento”.
Ne apprezzo la parte immaginativa che vi
rinchiusi ai miei primi passi e che negli ultimi anni, grazie al
lavoro in Loggia ho cercato di “prelevare”.
Proprio in Loggia, lavorando assieme agli altri
Fratelli, riflettendo sul lavoro di tutti e sul loro lavoro in
particolare, ho trovato appigli interiori che mi hanno permesso di
camminare.
Prendere le distanze dai mostri del mio mare e
“riconquistare” il resto, mangiare l’ombra per usare una
felice espressione di Robert Bly. (Il piccolo libro dell'ombra, Ediz. Red)
Mangiare è termine più completo di
riappropriarsi. Fa venir in mente il prendere una piccola parte,
sminuzzarle e tritarla, impastarla e farne un piccolo bolo,
inghiottirla, scomporla in parti più semplici, assimilarla,
assorbirla e digerirla, ed infine espellere il non riassorbibile.
Preferisco il termine cripta a quello di ombra
perché mi pare descrivere meglio il mio “altro”, non solo il
negativo.
Leggo in una celebrazione di Giordano Bruno ( Giordano
Bruno 1600 – 2000 Testimone dell’Infinito, Alino Editrice,
Perugia, 2004, p. 105):
Bruno in aperto contrasto con Platone, sostiene
che all’uomo è possibile “ascendere” progressivamente
dall’ombra interiore all’idea da cui “promana”, attraverso
l’attività fantastica che agente di memoria, nell’atto di
superare i limiti della memoria umana rende sensibile ciò che non è
possibile cogliere con i sensi. Una mediazione libera,
rinforzata dalle immagini che non si prospetta in alcun modo, come
strumentale ma esercizio fantastico e creativo…
Mi pare una buona osservazione che può ispirare
il lavoro del Compagno.
Il primo passo deve essere conoscere per quanto
possibile cosa ci sia nella cripta e farne una specie di inventario.
Può esserci anche utile il senso dell’inconscio
collettivo di Jung, a patto di non limitarsi alla sua interpretazione
psicologica. Del resto il simbolo di un “contenitore” primordiale
e collettivo è presente agli albori della storia simbolica
dell’umanità: l’arca di Noè.
Cosa c’era nell’arca?
Leggiamo nella
traduzione di Mario Nordio i primi tre versetti del capitolo 7 della
Genesi:
Jahweh disse a Nòach: « Entra tu e tutta la tua famiglia
nell’arca, poiché ti ho veduto giusto dinanzi a me in questa
generazione. Di tutto il bestiame puro prenditi sette sette, maschio
e femmina, e di tutto il bestiame che non è puro un paio, maschio e
femmina. Anche dei volatili del cielo sette sette, maschio e femmina;
perché la razza sopravviva sulla faccia di tutta la terra.
Il senso è immediato: la propagazione della vita
sulla terra. Gli animali sono imbarcati a coppie e gli uomini
discenderanno dalla famiglia di Noè.
Siamo tutti figli di Noè e
siamo sottoposti ai primordiali imperativi morali dei noachidi. E
come noachidi, cioè uomini, abbiamo il nostro mondo interiore le cui
radici simbolicamente poniamo proprio nell’arca.
L’arca è la “scatola chiusa primordiale”
dell’umanità. La cripta è la nostra “scatola chiusa”
personale, deposito del bello e del brutto, del buono e del cattivo,
ma anche di una specie di polverina magica che può far nascere
qualunque cosa, ma da utilizzare, come tutto ciò che è lì, con
grande prudenza. Scendendovi riusciamo a riprendere le nostre facoltà
di sviluppo (autosviluppo).
La prudenza è necessaria e indispensabile: il
lavoro interiore può non solo sviare ma pure colpire e ferire se non
distruggere.
Dobbiamo saper discernere tra legittime aspirazioni
messe temporaneamente o definitivamente in disparte e tendenze
micidiali rifiutate e ibernate.
Se la discesa nella cripta aiuta a riprendere il
cammino allora ci vien data una autonomia solida: noi scegliamo la
nostra via e non siamo seguaci.
Se invece non possiamo (o vogliamo) mantenere
l’indipendenza nel camminare allora vuol dire che dipendiamo da
altri, l’organizzazione, il gruppo, il personaggio eminente o
peggio il capopopolo. Marie-Louise von Franz (in Jung, L’uomo e
i suoi simboli, Oscar Mondadori, p. 183) spiega l’ “attaccamento” (o
seduzione) verso il capopopolo o l’organizzazione o qualsiasi altra
cosa:
L’ombra è esposta alle influenze della collettività in
misura molto più notevole di quanto non lo sia la personalità
cosciente. Quando un uomo è solo, per esempio, egli avverte che
tutto va relativamente bene; ma, appena gli « altri » compiono atti
di carattere involutivo e primitivo, egli incomincia a credere che,
se non si unisce a loro, sarà ritenuto uno sciocco. Così, egli
libera impulsi che non gli sono affatto propri.
Sembra quasi la spiegazione della diffusione
odierna di tante idee che paiono di corto respiro. Almeno è mio
parere che l’emulazione del brutto e del “cattivo” sia una
delle cause possibili di tanti atti criminali, dai sassi lanciati dai
ponti sulle autostrade, alla negazione viscerale di ciò che è
diverso.
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