Leggo L’albero velenoso della fede di Barbara Kingsolver
(edizioni Beat, 2013, Vicenza).
Racconta Orleanna, moglie di un missionario
sbattuta a vivere assieme alle sue quattro figlie in uno sperduto
villaggio nel Congo ex belga negli anni Sessanta del secolo scorso,
dei rapporti con le donne del villaggio: Una madre e una figlia
straniera che si credevano superiori di colpo ridotte a due nullità.
(p. 83).
L’ostilità delle donne del villaggio era sorta
dall’avere le due bianche incidentalmente mostrato le parti pubende
nude. E quella fu una lezione per le due bianche giunte lì con tutta
la loro superiorità di bianche civilizzate unite alla foga
missionaria del marito e padre che nulla capiva del senso della vita
africana.
Contemporaneamente fu anche una lezione per (alcune) donne
del villaggio, che guardavano quelle donne estranee con gli occhi di
un giudice preconcetto.
Orleanna continua. Fino a quel momento avevo
pensato di poter percorrere due strade: essere una di loro
[cioè una delle abitanti del villaggio] ed anche la moglie
di mio marito [il missionario].
Che superbia! Ero il suo strumento, il suo animale. Nient’altro.
Noi mogli e madri siamo destinate a perire a causa della nostra
stessa onestà. Ero soltanto un’altra di quelle donne che tengono
la bocca chiusa e sventolano la bandiera, guardando il loro paese
marciare alla conquista di un’altra nazione in guerra.
(…) Guardo le mie figlie cresciute adesso, cercando i
segni che mi dicano che hanno trovato una specie di pace. Come ci
sono riuscite, mentre io resto perseguitata dal giudizio?
E’ stato detto: non
giudicare se non vuoi essere giudicato. Ed è vero, se si intende il
giudizio frettoloso basato spesso sul pre-giudizio .
Ma il giudizio di cui
parla Orleanna non è il giudizio del marito missionario che “sente
il dovere” di convertire (!?!) al cristianesimo i congolesi per un
malinteso senso di Dio, e non è nemmeno il giudizio del congolese
verso i bianchi colonizzatori, pure questo inficiato da pregiudizi
ben fondati (si pensi allo sfruttamento feroce della popolazione del
Congo proprietà personale di Leopoldo II del Belgio tra Ottocento e
Novecento).
Il giudizio è quello
della protagonista verso se stessa. E’ il giudizio dell’uomo che
si giudica in base a ciò che ha fatto o non ha fatto.
C’era poco tempo per riflettere su ciò che
era giusto e ciò che era sbagliato, quando capivo a stento dove mio
trovavo. In quei primi mesi mi capitava spesso di destarmi di
soprassalto, convinta di essere ancora a Pearl, nel Mississippi.
(p. 83).
(…)
Nathan
[il marito missionario] tuttavia non voleva ascoltare le
mie preoccupazioni. Per lui la vita era semplice, come pagare in
contanti e infilare la ricevuta in tasca: avevamo la protezione del
Signore, diceva, perché eravamo venuti in Africa al Suo servizio.
Ma in chiesa cantavamo “Tata Nzolo”! Che
significa “Padre celeste” oppure “Padre dell’esca dei pesci”
a seconda di come si pronuncia, e questo riassumeva bene le mie
ansie. Non riuscivo a decidere se considerare la religione
un’assicurazione sulla vita o una condanna a morte.
(p. 90).
La religione,
semplicemente, è come la si vive. La protagonista è in una
situazione particolare, sbattuta in un posto lontanissimo nello
spazio e nella cultura, fondamentalmente ostile per il quale non ha
la minima preparazione; non può che essere distante non solo dalla
religione praticata dal marito, uomo inetto, accecato dalla sua
visione religiosa, incapace di cogliere il mondo e di capire che è
proprio lui l’origine delle difficoltà della sua famiglia, che lo
sentirà sempre più estraneo.
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