mercoledì 20 febbraio 2019

La Bellezza che non si riconosce 2

Leggo L’albero velenoso della fede di Barbara Kingsolver (edizioni Beat, 2013, Vicenza).

Racconta Orleanna, moglie di un missionario sbattuta a vivere assieme alle sue quattro figlie in uno sperduto villaggio nel Congo ex belga negli anni Sessanta del secolo scorso, dei rapporti con le donne del villaggio: Una madre e una figlia straniera che si credevano superiori di colpo ridotte a due nullità. (p. 83).

L’ostilità delle donne del villaggio era sorta dall’avere le due bianche incidentalmente mostrato le parti pubende nude. E quella fu una lezione per le due bianche giunte lì con tutta la loro superiorità di bianche civilizzate unite alla foga missionaria del marito e padre che nulla capiva del senso della vita africana. 

Contemporaneamente fu anche una lezione per (alcune) donne del villaggio, che guardavano quelle donne estranee con gli occhi di un giudice preconcetto.

Orleanna continua. Fino a quel momento avevo pensato di poter percorrere due strade: essere una di loro [cioè una delle abitanti del villaggio] ed anche la moglie di mio marito [il missionario]. Che superbia! Ero il suo strumento, il suo animale. Nient’altro. Noi mogli e madri siamo destinate a perire a causa della nostra stessa onestà. Ero soltanto un’altra di quelle donne che tengono la bocca chiusa e sventolano la bandiera, guardando il loro paese marciare alla conquista di un’altra nazione in guerra. (…) Guardo le mie figlie cresciute adesso, cercando i segni che mi dicano che hanno trovato una specie di pace. Come ci sono riuscite, mentre io resto perseguitata dal giudizio?

E’ stato detto: non giudicare se non vuoi essere giudicato. Ed è vero, se si intende il giudizio frettoloso basato spesso sul pre-giudizio .

Ma il giudizio di cui parla Orleanna non è il giudizio del marito missionario che “sente il dovere” di convertire (!?!) al cristianesimo i congolesi per un malinteso senso di Dio, e non è nemmeno il giudizio del congolese verso i bianchi colonizzatori, pure questo inficiato da pregiudizi ben fondati (si pensi allo sfruttamento feroce della popolazione del Congo proprietà personale di Leopoldo II del Belgio tra Ottocento e Novecento).

Il giudizio è quello della protagonista verso se stessa. E’ il giudizio dell’uomo che si giudica in base a ciò che ha fatto o non ha fatto.

C’era poco tempo per riflettere su ciò che era giusto e ciò che era sbagliato, quando capivo a stento dove mio trovavo. In quei primi mesi mi capitava spesso di destarmi di soprassalto, convinta di essere ancora a Pearl, nel Mississippi. (p. 83).
(…)
Nathan [il marito missionario] tuttavia non voleva ascoltare le mie preoccupazioni. Per lui la vita era semplice, come pagare in contanti e infilare la ricevuta in tasca: avevamo la protezione del Signore, diceva, perché eravamo venuti in Africa al Suo servizio.
Ma in chiesa cantavamo “Tata Nzolo”! Che significa “Padre celeste” oppure “Padre dell’esca dei pesci” a seconda di come si pronuncia, e questo riassumeva bene le mie ansie. Non riuscivo a decidere se considerare la religione un’assicurazione sulla vita o una condanna a morte. (p. 90).

La religione, semplicemente, è come la si vive. La protagonista è in una situazione particolare, sbattuta in un posto lontanissimo nello spazio e nella cultura, fondamentalmente ostile per il quale non ha la minima preparazione; non può che essere distante non solo dalla religione praticata dal marito, uomo inetto, accecato dalla sua visione religiosa, incapace di cogliere il mondo e di capire che è proprio lui l’origine delle difficoltà della sua famiglia, che lo sentirà sempre più estraneo.

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