Nei ricordi sta l’identità
di una persona.
Lo sapeva bene Dumas che fece riflettervi Edmond
Dantes proprio nella cella dove era stato rinchiuso per tanti anni.
Sull’altra parete del muro un’iscrizione attrasse la sua
attenzione. Si staccava, ancor bianca, sul muro verdastro: “Mio
Dio” lesse Montecristo, “conservatemi la memoria”. “Oh, sì”
gridò, “ecco la sola preghiera dei miei ultimi tempi. Io non
chiedevo più la mia libertà, io chiedevo la memoria, temevo di
diventare pazzo, e di dimenticare tutto. Mio Dio, mi avete conservata
la memoria, ed io mi sono ricordato di tutto. Grazie, grazie, mio
Dio!”.
(Alexandre Dumas, Il conte di Montecristo)
Io
oggi sono così perché feci certe cose e non feci certe altre cose.
Detto così suona quasi banale il ricordare il passato di una
persona, ma lì vi è tutto ciò che è.
Lo
sa bene il religioso che pone nella sponda “altra” rispetto alla
nostra vita la conseguenza delle nostre azioni.
Che valore potrebbe
avere il “giudizio finale” se non fosse preservato in qualche
modo il senso del ricordo e della memoria?
La memoria è parte dell’uomo, è l’uomo: è il ricordo di tutto ciò che è stato. Se io oggi sono così è perché ho commesso o non commesso certe azioni, ho pensato o non pensato certi pensieri, sono stato o non sono stato in un certo modo. E’ il mio vissuto personale, il mio bagaglio che, volente o nolente, mi accompagna.
La mia memoria lo sa; e come il conte di Montecristo chiedo che mi venga conservata, perché altrimenti sono parti di me che vanno perdute e nessuno – neppure io! – potrà più recuperarle.
La memoria deve anche essere stimolo per “solstiziamente” riflettere su quanto accaduto: appunto, ricordare e riflettere per meglio essere.
Noi abbiamo una specie di Diario personale nel quale registriamo l’accaduto.
Ma ciò che registriamo è proprio l’ “accaduto” ?
Oppure, per quanto precisi e pignoli, l’impresa è impraticabile perché non è possibile fissare qualcosa obiettivamente?
La piccola madeleine che accende il ricordo dovrà a farci riflettere, almeno per qualche istante, sulla strada che abbiamo percorso e se la strada che abbiamo percorso è stata proprio quella ricordata (rivisitata dalla memoria).
Noi siamo come tanti piccoli Brancaleone, e lo dico con l’affetto e il senso più positivi.
Non il Brancaleone dell’omonima armata che nel linguaggio comune ha ormai assunto il significato di vacuità, sbruffoneria e becera inconcludenza; ma il Brancaleone da Norcia, che pur a capo di un gruppo di personaggi “scassati” e sconclusionati (le nostre qualità positive e negative?), senza aiuto di nessuno, riesce a superare innumerevoli pericoli e a giungere in Terra Santa.
Il Brancaleone da Norcia (perché proprio Norcia? perché "suona bene"?) che sopravvive alla lotta contro l’invincibile Angelo della Morte (non a vincerlo, impresa impossibile per un mortale, ma ad allontanarlo, sia pure per un po’).
E raggiunta una meta, forse impensata perché senza alternative (ma ha alternative il camminatore se non il camminare?), continua il suo viaggio in compagnia di una gazza, uccello che molte culture vedono come psicopompo [dal greco psiché = anima e pompòs = conduttore] e compagno di viaggio nell'altrove.
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