Tramortito, il federale, riattaccando
il ricevitore e cominciando a balbettare: « Scusi, eccellenza... »,
si vide assalire da un grido:
« Che cosa è mai questo lei? Ti
diferirò al consiglio di disciplina. Siamo al lei in questa città
di felloni? » E rivolgendosi anche agli altri « Dove avete
cacciato le vostre uniformi, dove? Doveee? Di corsa, via, andate a
casa e ritornate immantinenti, in pieno assetto rivoluzionario.
Voglio eseguire un’ispezione capillare e porre in grande rilievo la
cerimonia di questa sera. Se necessario suoneremo le campane.
Capito? ».
Il federale, il vice federale, Califano
e Gallina da parecchi giorni vestivano in borghese. Non potendo
fuggire, cercavano di farsi dimenticare. Ora, altro era poter dire
davanti a un tribunale: “ Si, ci avevo creduto, ma fin dal mese di
aprile, che dico, fin dal mese di gennaio “ (non sarebbero stati li
a sottilizzare...) “ mi ero tolto la divisa, restando al mio posto
come un funzionario dello stato e per lo stato ”; altro
discorso ammettere d’essere rimasti fino all’ultima ora in
uniforme, senza mai compiere un tentativo di rottura con il doppio
gioco.
Quel folle, no, non ci voleva.
Bisognava salvare il popolo di B. Bisognava risparmiargli il
battesimo del foco e il lavacro cruento, come diceva il Cavaliere. Le
fiaccole? Il Mar Mediterraneo era pieno zeppo di portaerei e sarebbe
bastata la fiammella di un lumino a far divampare l’incendio.
Questo il discorso press’a poco che
il federale tenne ai suoi compari.
« Intanto, che facciamo? ».
« Faremo il suo gioco. Suoneremo anche
noi le nostre campanelle » disse il federale. « Per ora
andiamo a casa. Vestiamoci. Ritorneremo in federazione con le tendine
della macchina abbassate. Poi si vedrà. Ho fiducia nel mio destino.
Tra mezz’ora tutti qua. Sono le 13 e 19, alle 13 e 49 ci
presenteremo a quel folle e cercheremo di farlo ragionare con le
buone o con le cattive. Ci sono molte cantine in federazione e come
albergo a un eroe come lui non dovrebbe dispiacere. Che ne dite? ».
Il vice federale Califano e Gallina
annuirono e si sciolsero.
Nel frattempo il nostro Cavaliere non
se n’era stato con le mani in mano.
Lasciata la grandiosa camera di
consiglio si era lanciato per i corridoi. Apriva e chiudeva le porte
di tutte le stanze che gli capitavano sott’occhio e non riusciva a
capire perché fossero deserte e alcune anche in disordine come chi,
per un vento straordinario, lascia tutto come si trova e scappa.
Disceso al piano rialzato gli si parò davanti un altro lungo, largo
e arioso corridoio, ma ancora più vuoto degli altri. “ Cosa
succede “, pensò il Cavaliere. “ Oggi è ben un giorno
feriale e questi mangia-stipendi hanno fatto vacanza? Stilerò subito
un rapporto da inviare a Roma. Voglio i nomi dei centoventi
impiegati “. E procedendo nell’ispezione esclamava: “ Guarda
che palazzi si sono fatti costruire, tutto marmo, senza risparmio. La
è proprio una bella retrovia... “. A questo punto senti il
tonfo di un timbro.
Non si era sbagliato. In uno
sgabuzzino, in fondo, c’era un vecchietto che timbrava alcune
circolari in partenza. Il Cavaliere si stropicciò gli occhi come a
una distorta visione e gridò:
« Gaetano, sei tu Gaetano Amatruda? ».
« Sono io e voi, chi siete? » rispose
il vecchietto, scattando nel fiero saluto regolamentare.
« Sono Annibale, Annibale Savina.
Non ricordi? Il covo a Milano? Le battute in Romagna contro i vili?
Il bivacco a Roma? Ne abbiamo passate di belle, eh! ».
« Annibale, Annibale mio, oh che
gioia rivederti. Donde vieni? ».
« Da Roma, inviato personalmente
da Lui ».
«E perché fare in questa morta
gora? ».
« A metterla in subbuglio, a dar
calore e foco agli egri petti ».
« Ma cosa vuoi riscaldare, amico mio.
Neanche un incendio potrebbe ottenere i giusti effetti. Sono tutti
tremanti di paura. Non vedi dove mi hanno cacciato per non essere
disturbati neanche dalla mia presenza?... ».
« Camerata, fratello, non ti
preoccupare. Ora siamo in due, siam forti e intrepidi. Ci
vendicheremo. Li faremo rigare diritto. Li ho già spediti alle loro
case con l’ingiunzione di ritornar qui immantinenti e in perfetta
uniforme. Debbono preparare la piazza a uno storico discorso, con
fiaccolata finale. Anzi, sarebbe grazioso che fossi tu a presentarmi
all’avido pubblico ».
« Magnifico ».
« Il popolo è con noi » disse il
Cavaliere.
« Se ritorniamo in mezzo a loro, sarà
di nuovo con noi » rispose esultando Gaetano che, dopo anni e anni
di umiliazioni, ritrovava un amico fiero e rotto a ogni avventura.
Intanto le ore passavano e dei compari
neanche una gamba, una mano o soltanto un fantasma. Per fortuna,
Annibale e Gaetano si erano dimenticati del mondo, esaltandosi ai
ricordi del passato. Si erano tolte le giacche e, ora, in bretelle e
senza cravatta come al tempo della marcia si sentivano a loro agio.
Felici e contenti mangiarono pane e mortadella e tra un boccone e
l’altro ricordavano la memorabile visita compiuta al Vittoriale,
visita a cui aveva voluto partecipare anche lui e nella sua forma
migliore, d’antiborghese nato e cresciuto e come loro amante dei
buoni versi.
Annibale:
O Miramare, che di
foschi ondeggi
frassini al vento,
murmuranti e lungi...
Gaetano:
Sol’io
combatterò
procomberò sol’io.
Infine si alzarono e, come in un duetto
all’opera, gridarono:
« Evviva, evviva ».
Placàti, Gaetano disse:
« Io non lo vedo che saran forse
tre lustri. Una volta gli spedii una lettera senza ottenere risposta.
Ne rimasi ferito e ora son quaggiù solo per l’antica fede ».
Annibale si commosse profondamente e
per confortarlo rispose:
« Vedessi com’è ridotto.
Guance infossate, occhi spiritati, mani tremanti. Fa pena. L’aver
bevuto sino in fondo l’amaro calice gli ha fatto bene, gli ha
giovato, gli ha ridato la grande memoria eroica. Ha pianto nelle mie
braccia, dicendomi: “Pochi fummo e pochi siamo, ma salveremo la
patria lo stesso “ ».
« È comodo però ricordarsi dei veri
amici nel pericolo » commentò Gaetano.
Annibale non volle trattare questo tema
e rispose:
« Credimi, le sue idee erano anche le
mie. Forse sono più mie che sue. E poiché sono mie io le seguo e se
lui non mi seguisse io tratterei anche lui come ho trattato questi
cialtroni... A proposito, che ora si è fatta? Non voglio credere per
davvero che siano dei felloni ».
« Sono pigri » disse Gaetano « ma
finiranno per spuntare ».
Fino all’ultimo ingenui, Gaetano come
Annibale, Annibale come Gaetano, Gaetano aggiunse:
« Poveri ragazzi, abbiamo pensato male
di loro e forse ci stanno cercando ».
« Allora andiamo a cercarli noi »,
propose Annibale.
« Andiamo ».
Ma era tardi, molto tardi. L’energia
elettrica mancava e Annibale propose di accendere due fiaccole.
Gaetano ne conservava un paio di dozzine in vista del giorno della
vittoria. Le trovarono, le spuntarono, le accesero e, ispezionato
l’edificio e non trovando anima viva, uscirono alla strada,
lacerando l’oscurità con le sinistre fiamme, al grido di:
All’armi,
all’armi,
all’armi, siam...
A quella fiammata, una fontana di
scintille, gli aerei in agguato si precipitarono a stormi su B., che,
alfine, riceveva il battesimo del fuoco; con grande gioia di Annibale
e Gaetano di cui ben presto, travolti dalle gigantesche esplosioni,
si perse ogni traccia mortale.
Press’a poco nello stesso momento il
federale, il vice federale, Califano e Gallina potevano
riabbracciare, al riparo di una solitaria chiostra di monti, le
rispettive famiglie. La moglie del federale non voleva ricevere il
marito, irriconoscibile. Nel tempo di una notte, per la paura, era
diventato canuto.
Domenico Rea
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