martedì 13 novembre 2018

Annibale e Gaetano 1

E' una novella di Domenico Rea che ho trovato poco tempo fa in una breve raccolta per ragazzi della Nuova Italia: Domenico Rea, "Questi Tredici", Edizioni La Nuova Italia, 1968.
La novella è ambientata in una cittadina campana (immagino non lontana da Napoli) alla vigilia del crollo del regime fascista il 25 luglio 1943.
Mi ha colpito l'immaginazione e mi ha fatto riflettere sulle tematiche "nostre": credo che la Massoneria sia alla fin fine un metodo di lavoro che può incidere nel nostro interno e che la sua applicazione non debba limitarsi alle poche ore del lavoro di Loggia.
E qui dò una lettura appunto "mia" del racconto.
 
*

In quei giorni (si era alle soglie del fatidico 25 luglio) il partito mandava in giro per fasci e federazioni i suoi figli migliori, i veri credenti, coloro che si potevano considerare gli apostoli del regime e di cui pochi conoscevano il nome e quasi nessuno il glorioso passato.

Nell’aria c’erano ombre di ravvedimento e delusioni. Il giaccone di orbace con la testa di morto attaccata al taschino e il berretto con l’aquila romana cominciavano a dar fastidio come una camicia di forza. Centurioni e seniori, un tempo apparsi con la possanza di antichi romani, dimagrivano nella divisa una volta aderente, ora larga e piena di pieghe, come chi sia costretto a indossare un vestito acquistato prima di una grave malattia.

Se poi si pensa che in quel torno di tempo anche brava gente, l’immensa categoria degl’ignavi, si considerava in convalescenza, è facile immaginare lo stato d’animo di chi si era spinto fino al punto di attraversare le strade in piena luce e sotto lo sguardo di amabili signore al passo dell’oca.

Ora tutti sanno di quali e quante storture e incubi sia suscitatore il fenomeno della convalescenza. È paragonabile a una persona che comincia ad andare in bicicletta, sempre di qua e di là dall’equilibrio, sempre sul punto di cadere. E poiché in quei giorni una notevole percentuale d’italiani sembrava aver perduto il senso dell’orientamento, “ quelli di Roma “ pensarono di sguinzagliare — a raggiera — per le innumerevoli strade d’Italia, i Cavalieri dell’Apocalisse.

Una cinquantina di persone in tutto, questi cavalieri. Essi avevano ardentemente creduto, ma avevano commesso l’errore di scambiare la politica della violenza per una lirica di D’Annunzio e del genere di:

Naviglio d’acciaio, diritto, veloce, guizzante,
bello come un’arme nuda...

Il regime, grazie a questa loro pericolosa ingenuità, li aveva tenuti all’ombra durante il ventennio, offrendo loro dei contentini: un diploma di benemerenza, una medaglia al valore culturale, una sinecura in qualche ufficio sperduto del Minculpop. Uomini di questo genere, inclini all’autoesaltazione, funzionano bene nei giorni di bivacco. Col ritorno all’ordine, rassomigliano ai parenti poveri, ai guastafeste e ingenerano fastidio e commiserazione.
Ad altra gente era stato concesso di salire nella gerarchia. 

Qualcuno, certo, si era ribellato e aveva parlato di “ rivoluzione tradita “ e di rivoluzionari imborghesiti. Ma aveva predicato al deserto. Lo avevano lasciato sfogare sulle squallide pagine dei mensili rionali che nessuno leggeva e che nel migliore dei casi divertivano i camerati assisi in soffici e sontuose poltrone, circondati da servili e ridanciane compagnie, press’a poco come quelle aggirantisi dentro e fuori il sinistro palazzotto di Don Rodrigo.

Ma con l’insorgere dei tempi duri e con la trasformazione del classico cielo italiano in una succursale di Piedigrotta — le notti come caldaie bollenti di fuoco fuso alimentate dai grappoli di bombe al tritolo lanciati dalle fortezze volanti — ecco che le persone dabbene e quelle che si erano fatte avanti e in alto con l’arte dell’adulazione e dell’ipocrisia, per timore di ben altre sciagure, cominciarono a meditare sul non meno classico e secolare camaleontismo, lasciando volentieri le metafisiche e dechirichiane piazze in balia di alcuni poveri diavoli con baffi e mosche dartagnanesche.

E fu cosi che un bel giorno, nella impauritissima federazione della città di B., in Campania, giunse inaspettato e indesiderato un impagabile campione con lo scopo preciso di riscaldare i cuori e i tremolanti petti. Nell’incursione della notte precedente su una cittadina nei pressi di B., i cavi telefonici erano saltati e il servizio di spionaggio interno collegato con Roma non dava segno di rimettersi a funzionare.

L’arrivo quindi del Cavaliere non era stato preannunciato e ora giungeva al colmo di una furiosa discussione tra i più alti funzionari in carica sui... luoghi da preferire per imboscare le di già in salvo famiglie. Per essi, ahimè, dicevano, (ma non ci credevano) per le loro oneste persone non c’erano speranze. Qualcuno doveva pur correre il rischio di una "morte in bellezza", frase tipica di quei tempi. Problemi grossi sui quali si stavano accanendo quei quattro governatori meridionali che, d’ora in ora, avviavano verso remote plaghe montane a raggiungere i congiunti ora un sacco di grano, ora un sacco di patate o di farina e damigiane d’olio e di vino, strappate dalle mani insanguinate dei primi "contrabbandieri" .

Se il nostro Cavaliere fosse stato un uomo saggio avrebbe subito capito da che parte tirava il vento. Ma poiché era vissuto sempre di versi, disse a se stesso: "Guarda questi ragazzi come si preoccupano. Con quale mai audacia discutono i problemi della morte eroica".

E ciò persuaso entrò col braccio teso al saluto, gridando:

« Italia, Italia,
sacra alla nuova aurora,
con l’aratro e la prora.

Camerati, all’erta. Sono tra voi. È Lui in persona che ha voluto che io venissi a portarvi il Suo incoraggiamento. Consideratemi più di un camerata, un fratello. Non vi abbandonerò. Stasera è mia intenzione di parlare virilmente al fedele popolo di B. e alla fine chiuderemo la manifestazione del coraggio con corteo, inni e fiaccolata. Le avversità si combattono e vincono calpestandole ».

Apriti cielo. I quattro funzionari erano stupefatti. In un istante pensarono alla fatalità della loro rovina. Con un esaltato di quel calibro alle calcagne, non avrebbero avuto alcuna possibilità di scampo. Infine il federale si fece coraggio e disse (ma con un tono volutamente ragionevole come si fa con i pazzi e con certi bambini):

« Camerata di Roma, noi contraccambiamo i saluti del nostro grande capo e siamo onorati, oltre che lieti, di averti tra noi. Non avevamo bisogno di iniezioni di eroismo, perché abbiamo coraggio da vendere, ma la compagnia di un eroe è in ogni caso utile in questi giorni. Ma vi è un ma, eh, si, un ma. La manifestazione non si può fare... ».

« Ahahahah, e perché? » chiese il Cavaliere dell’Apocalisse.

« Perché saremmo immediatamente avvistati dalle fortezze volanti. E grazie a Dio e al nostro buon governo in questa terra non è ancora corso il sangue dei morti e dei feriti da incursioni ».

« Per il gran capo, potrebbe essere questa l’occasione! Il popolo ha bisogno del battesimo del fuoco, del lavacro cruento — e guardando a fondo i quattro gerarchi aggiunse: — Signori, a Roma sono giunte voci ambigue e strane sul vostro conto. Ricordate che vige la legge marziale. Bisogna far qualcosa che:
...sia foco
agl’italici petti ».

Il federale, il vice federale, il seniore Califano e il centurione Gallina si guardarono ancora una volta terrorizzati. Pensarono che se da Roma si sguinzagliavano per il Paese pazzi di quella pericolosità si poteva chiuder bottega davvero. Travolto dalla paura, che a volte ha le forme del coraggio, il federale osò chiedere al Cavaliere:

« Ma scusi, in definitiva, lei chi è? ».

A questo punto squillò il telefono e come dall’oltretomba una voce remota prese a dire al federale:

« Pasquale, guarda che in giornata da voi dovrebbe arrivare *** ...
Di già? Come, chi è? È stato un intimo del capo tra il 1918 e il ‘25, tenuto in seguito all’ombra per il suo insopportabile spirito rivoluzionario. Il capo, ritornato ai sentimenti delle origini, ora si fida soltanto di lui e di altre quarantanove persone. Mi raccomando, tienilo a bada. È pericoloso. Buona fortuna ».


(continua)

Nessun commento: