La novella è ambientata in una cittadina campana (immagino non lontana da Napoli) alla vigilia del crollo del regime fascista il 25 luglio 1943.
Mi ha colpito l'immaginazione e mi ha fatto riflettere sulle tematiche "nostre": credo che la Massoneria sia alla fin fine un metodo di lavoro che può incidere nel nostro interno e che la sua applicazione non debba limitarsi alle poche ore del lavoro di Loggia.
E qui dò una lettura appunto "mia" del racconto.
*
In quei giorni (si era alle soglie del
fatidico 25 luglio) il partito mandava in giro per fasci e
federazioni i suoi figli migliori, i veri credenti, coloro che si
potevano considerare gli apostoli del regime e di cui pochi
conoscevano il nome e quasi nessuno il glorioso passato.
Nell’aria c’erano ombre di
ravvedimento e delusioni. Il giaccone di orbace con la testa di morto
attaccata al taschino e il berretto con l’aquila romana
cominciavano a dar fastidio come una camicia di forza. Centurioni e
seniori, un tempo apparsi con la possanza di antichi romani,
dimagrivano nella divisa una volta aderente, ora larga e piena di
pieghe, come chi sia costretto a indossare un vestito acquistato
prima di una grave malattia.
Se poi si pensa che in quel torno di
tempo anche brava gente, l’immensa categoria degl’ignavi, si
considerava in convalescenza, è facile immaginare lo stato d’animo
di chi si era spinto fino al punto di attraversare le strade in piena
luce e sotto lo sguardo di amabili signore al passo dell’oca.
Ora tutti sanno di quali e quante
storture e incubi sia suscitatore il fenomeno della convalescenza. È
paragonabile a una persona che comincia ad andare in bicicletta,
sempre di qua e di là dall’equilibrio, sempre sul punto di cadere.
E poiché in quei giorni una notevole percentuale d’italiani
sembrava aver perduto il senso dell’orientamento, “ quelli
di Roma “ pensarono di sguinzagliare — a raggiera — per le
innumerevoli strade d’Italia, i Cavalieri dell’Apocalisse.
Una cinquantina di persone in tutto,
questi cavalieri. Essi avevano ardentemente creduto, ma avevano
commesso l’errore di scambiare la politica della violenza per una
lirica di D’Annunzio e del genere di:
Naviglio
d’acciaio, diritto, veloce, guizzante,
bello come un’arme
nuda...
Il regime, grazie a questa loro
pericolosa ingenuità, li aveva tenuti all’ombra durante il
ventennio, offrendo loro dei contentini: un diploma di benemerenza,
una medaglia al valore culturale, una sinecura in qualche ufficio
sperduto del Minculpop. Uomini di questo genere, inclini
all’autoesaltazione, funzionano bene nei giorni di bivacco. Col
ritorno all’ordine, rassomigliano ai parenti poveri, ai guastafeste
e ingenerano fastidio e commiserazione.
Ad altra gente era stato concesso di
salire nella gerarchia.
Qualcuno, certo, si era ribellato e aveva
parlato di “ rivoluzione tradita “ e di rivoluzionari
imborghesiti. Ma aveva predicato al deserto. Lo avevano lasciato
sfogare sulle squallide pagine dei mensili rionali che nessuno
leggeva e che nel migliore dei casi divertivano i camerati assisi in
soffici e sontuose poltrone, circondati da servili e ridanciane
compagnie, press’a poco come quelle aggirantisi dentro e fuori il
sinistro palazzotto di Don Rodrigo.
Ma con l’insorgere dei tempi duri e
con la trasformazione del classico cielo italiano in una succursale
di Piedigrotta — le notti come caldaie bollenti di fuoco fuso
alimentate dai grappoli di bombe al tritolo lanciati dalle fortezze
volanti — ecco che le persone dabbene e quelle che si erano fatte
avanti e in alto con l’arte dell’adulazione e dell’ipocrisia,
per timore di ben altre sciagure, cominciarono a meditare sul non
meno classico e secolare camaleontismo, lasciando volentieri le
metafisiche e dechirichiane piazze in balia di alcuni poveri diavoli
con baffi e mosche dartagnanesche.
E fu cosi che un bel giorno, nella
impauritissima federazione della città di B., in Campania, giunse
inaspettato e indesiderato un impagabile campione con lo scopo
preciso di riscaldare i cuori e i tremolanti petti. Nell’incursione
della notte precedente su una cittadina nei pressi di B., i cavi
telefonici erano saltati e il servizio di spionaggio interno
collegato con Roma non dava segno di rimettersi a funzionare.
L’arrivo quindi del Cavaliere non era stato preannunciato e ora
giungeva al colmo di una furiosa discussione tra i più alti
funzionari in carica sui... luoghi da preferire per imboscare le di
già in salvo famiglie. Per essi, ahimè, dicevano, (ma non ci
credevano) per le loro oneste persone non c’erano speranze.
Qualcuno doveva pur correre il rischio di una "morte in
bellezza", frase tipica di quei tempi. Problemi grossi sui
quali si stavano accanendo quei quattro governatori meridionali che,
d’ora in ora, avviavano verso remote plaghe montane a raggiungere i
congiunti ora un sacco di grano, ora un sacco di patate o di farina e
damigiane d’olio e di vino, strappate dalle mani insanguinate dei
primi "contrabbandieri" .
Se il nostro Cavaliere fosse stato un
uomo saggio avrebbe subito capito da che parte tirava il vento. Ma
poiché era vissuto sempre di versi, disse a se stesso: "Guarda
questi ragazzi come si preoccupano. Con quale mai audacia discutono i
problemi della morte eroica".
E ciò persuaso entrò col
braccio teso al saluto, gridando:
« Italia, Italia,
sacra alla nuova
aurora,
con l’aratro e
la prora.
Camerati, all’erta. Sono tra voi. È
Lui in persona che ha voluto che io venissi a portarvi il Suo
incoraggiamento. Consideratemi più di un camerata, un fratello. Non
vi abbandonerò. Stasera è mia intenzione di parlare virilmente al
fedele popolo di B. e alla fine chiuderemo la manifestazione del
coraggio con corteo, inni e fiaccolata. Le avversità si combattono e
vincono calpestandole ».
Apriti cielo. I quattro funzionari
erano stupefatti. In un istante pensarono alla fatalità della loro
rovina. Con un esaltato di quel calibro alle calcagne, non avrebbero
avuto alcuna possibilità di scampo. Infine il federale si fece
coraggio e disse (ma con un tono volutamente ragionevole come si fa
con i pazzi e con certi bambini):
« Camerata di Roma, noi
contraccambiamo i saluti del nostro grande capo e siamo onorati,
oltre che lieti, di averti tra noi. Non avevamo bisogno di iniezioni
di eroismo, perché abbiamo coraggio da vendere, ma la compagnia di
un eroe è in ogni caso utile in questi giorni. Ma vi è un ma, eh,
si, un ma. La manifestazione non si può fare... ».
« Ahahahah, e perché? » chiese il
Cavaliere dell’Apocalisse.
« Perché saremmo immediatamente
avvistati dalle fortezze volanti. E grazie a Dio e al nostro buon
governo in questa terra non è ancora corso il sangue dei morti e dei
feriti da incursioni ».
« Per il gran capo, potrebbe essere
questa l’occasione! Il popolo ha bisogno del battesimo del fuoco,
del lavacro cruento — e guardando a fondo i quattro gerarchi
aggiunse: — Signori, a Roma sono giunte voci ambigue e strane sul
vostro conto. Ricordate che vige la legge marziale. Bisogna far
qualcosa che:
...sia foco
agl’italici
petti ».
Il federale, il vice federale, il
seniore Califano e il centurione Gallina si guardarono ancora una
volta terrorizzati. Pensarono che se da Roma si sguinzagliavano per
il Paese pazzi di quella pericolosità si poteva chiuder bottega
davvero. Travolto dalla paura, che a volte ha le forme del coraggio,
il federale osò chiedere al Cavaliere:
« Ma scusi, in definitiva, lei chi è?
».
A questo punto squillò il telefono e
come dall’oltretomba una voce remota prese a dire al federale:
« Pasquale, guarda che in giornata da
voi dovrebbe arrivare *** ...
Di già? Come, chi è? È stato un
intimo del capo tra il 1918 e il ‘25, tenuto in seguito all’ombra
per il suo insopportabile spirito rivoluzionario. Il capo, ritornato
ai sentimenti delle origini, ora si fida soltanto di lui e di altre
quarantanove persone. Mi raccomando, tienilo a bada. È pericoloso.
Buona fortuna ».
(continua)
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