mercoledì 27 gennaio 2010

9.6.2 Fede, Speranza e Carità

Diverse camere cavalleresche indicano esplicitamente come princìpi fondamentali irrinunciabili Fede, Speranza e Carità. Sta al singolo cavaliere ricercare e indagare e trovare la libertà dai legami di una singola religione per assurgere a significati universali o – almeno – non troppo parziali.

Punto di partenza è sicuramente l’accezione religiosa: Fede in Dio (e magari nella [in una] chiesa), Speranza di salvezza e di vita eterna e fiducia nella potenza di Dio (che ci ha promesso la salvezza), Carità che da amore verso il prossimo diventa amore di Dio.
[Osservo che il Catechismo della chiesa cattolica è molto esplicito:
[1814] La fede è la virtù teologale per la quale noi crediamo in Dio e a tutto ciò che egli ci ha detto e rivelato, e che la Santa Chiesa ci propone da credere, perché egli è la stessa verità. Con la fede «l’uomo si abbandona tutto a Dio liberamente» . Per questo il credente cerca di conoscere e di fare la volontà di Dio. «Il giusto vivrà mediante la fede» (Rm 1,17). La fede viva «opera per mezzo della carità» (Gal 5,6).
[1817] La speranza è la virtù teologale per la quale desideriamo il Regno dei cieli e la vita eterna come nostra felicità, riponendo la nostra fiducia nelle promesse di Cristo e appoggiandoci non sulle nostre forze, ma sull’aiuto della grazia dello Spirito Santo. «Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è fedele colui che ha promesso» (Eb 10,23). Lo Spirito è stato «effuso da lui su di noi abbondantemente per mezzo di Gesù Cristo, Salvatore nostro, perché, giustificati dalla sua grazia, diventassimo eredi, secondo la speranza, della vita eterna» (Tt 3,6-7).
[1822] La carità è la virtù teologale per la quale amiamo Dio sopra ogni cosa per se stesso, e il nostro prossimo come noi stessi per amore di Dio.
]
Il fedele, il seguace della religione approfondisce ma non se ne discosta. Un esempio significativo (al di fuori di una specifica religione, ma tanto più eloquente per la fonte avulsa da schematismi di religione organizzata) viene fornito da Kierkegaard (cit. in Ludovico Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, sei voll., Milano, 1972 (1976. Volume VII), vol. V, p. 36): La negazione del cristianesimo è proprio questa: quando colui che lo predica poi non l’attua, non mostra in sé quella cosa che nel sermone dice di essere il cristianesimo. Cristo non ha istituito dei docenti, ma dei seguaci e imitatori. Non parla qui l’uomo di chiesa, ma chi della religione (specificatamente il cristianesimo) ha fatto essenza di vita e strumento per risolvere le contraddizioni della quotidianità. Per cui la sua testimonianza assume una valenza sicuramente più rilevante di altre.

Il camminatore invece sente i limiti di una idea religiosa (nel senso di appartenente ad una religione) e si sforza di andare oltre.

Impara come cavaliere Kadosch a considerare la metodologia muratoria contestualizzata al tempo e allo spazio, e quindi come tale da abbandonare al momento opportuno: i simboli infatti vanno considerati alla stregua degli altri attrezzi di lavoro, strumentalmente utilizzati fino a quando il loro compito è terminato. Ora invece il camminatore è solo di fronte a se stesso e deve imparare a lavorare “a mani nude”, discepolo e maestro di se stesso. E’ un impegno, drammatico e scomodo, di libertà: libertà dalle idee preconcette, libertà dalle chiese, libertà dalle ideologie, libertà anche dalle idee che l’uomo si è costruito come conquiste anteriori, che ora deve abbandonare per cercare nuove conquiste, come lo scalino di una scala serve di appoggio per un istante poi viene abbandonato per lo scalino successivo. Nel proprio testamento Krishnamurti ha insegnato: In te stesso giace il mondo intero e se tu sai come guardare ed imparare, avrai la porta a distanza vicina e la chiave nella tua mano. Nessuno al mondo, eccetto te stesso, può darti né quella chiave né quella porta.

Il lavoro interiore non può essere assimilato né alla via mistica né tanto meno alla via devozionale. Non può essere atteggiamento devozionale in quanto avviene al di fuori di qualsiasi canone stabilito da qualsiasi attività religiosa. Non può essere atteggiamento mistico, perché il camminatore non cerca esperienze e conoscenza del divino prescindendo dall’esperienza sensibile e dalle facoltà umane.

Fede, Speranza e Carità - ritengo - diventano la chiave per accedere allo stadio successivo del lavoro cavalleresco. Giulio Giorello, in un dibattito su Rai tre, puntualizzò: Il mio amico Bruno Forte dice una frase molto bella: che ogni ateo ha dentro un piccolo germoglio, che si pone le domande del credente e ogni credente però ha un ateo che ogni tanto cerca di corrodere questa fede. Il camminatore ha in sé un grande antidoto alle soluzioni propostegli da altri: il dubbio, il piccolo grande tarlo che intacca ogni certezza e permette di sradicare opinioni precostituite e sostituirle con costruzioni personali.

Il seguace (di una religione, di una filosofia, di una ideologia) non sente il desiderio di camminare per ricercare se non entro i canoni già stabiliti. Il ricercatore invece non riesce a fermare il proprio viaggio: è spinto da quella inquietudine che significa stare tra il sì e il no, che non significa non credere o non ragionare ma significa credere sfidando sempre l’assenza di fede, significa ragionare sfidando sempre l’antiragione (per usare una frase di Vincenzo Vitiello).

La fede deve quindi essere unita alla ragione, non perché non può essere senza quella, ma perché la ragione, svolgendo una funzione di “controllo”, non permette alla fede di trasformarsi in cieca credenza o addirittura superstizione. E accanto deve stare il dubbio. Ogni passo del camminatore sposta in avanti i confini della conoscenza, ma ogni passo sposta i confini anche dietro sé, perché ogni conquista non può non essere contestualizzata allo spazio e al tempo. Conquista è anche perdita, se non altro di ciò che viene superato: è perdita anche e soprattutto di vecchia fede perché non è necessario credere in ciò che si sa, che si è sperimentato.

Il confine tra fede buona e fede non buona, tra credenza e dottrina, è fugace. Matthieu Ricard (in Jean-François Revel e Matthieu Ricard, Il monaco e il filosofo, Milano, 1997, p. 17. Matthieu Ricard è il figlio di Jean François Revel, questo filosofo, quello monaco buddhista) riesce in poche parole a individuare il problema. Si riferisce esplicitamente al buddhismo, ma le sue parole vanno oltre i confini di una singola religione: il buddhismo non esclude nemmeno la fede, se per fede si intende una convinzione intima e incrollabile che nasce dalla scoperta di una verità interiore. La fede è anche stupore di fronte a questa trasformazione interiore. Ma più avanti (p. 270) puntualizzerà: La fede diviene superstizione quando si oppone alla ragione e si stacca dalla comprensione del senso profondo del rituale. Il rituale ha un senso (del resto la parola latina ritus significa «azione corretta»). Chiama alla riflessione, alla contemplazione, alla preghiera, alla meditazione.

Invece di fede io preferisco il termine fides, per indicare non solo la credenza in qualcosa che va oltre l’esperienza dei sensi, ma anche la fiducia, l’onestà, la lealtà, la coscienziosità, la probità, il senso di un collegamento con altro, l’aspirazione di trascendere senza connettersi ad idee consolatorie. Il senso della fides, a mio parere, recupera la positività della credenza in qualcosa di altrove, senza cadere nella religione e in intermediazioni tra l’uomo e la propria esigenza interiore. Ma fides non è fede nell’Assoluto (ammesso che esista): è fides nell’uomo, in se stesso, in ciò che viene indicato come il «crocifisso in sé» da chi sceglie la via della religione cristiana o come l’«uomo da risvegliare» da chi vuole lavorare su se stesso. E’ fiducia nel proprio lavoro e considerazione sulle capacità di eseguirlo considerando le proprie esperienze e non trascurando esperienze altrui; è la pietra squadrata del maestro massone, la chiave di volta del maestro dell’Arco Reale che ha conquistato la capacità di “firmarla” con il proprio marchio. E’ fides in quel quid che spinse l’ominide nostro antenato migliaia di anni fa ad alzare gli occhi alla volta stellata ed iniziare quel percorso, anche ma non solo darwiniano, che ha portato all’homo sapiens sapiens (e purtroppo anche all’homo “hodiernus”). E’ fides verso quel quid che spinse migliaia di anni fa un pastore errante dell’Asia a intuire quegli Elohim [che] disse: Sia la luce!. E la luce fu. Dio-Elohim creò il mondo e l’uomo in sette giorni; ma prima (o contemporaneamente?) l’uomo creò Dio-Elohim in sette notti. Questo spiegherebbe la molteplicità di concetti di dio dall’alba dell’umanità ad oggi (e la molteplicità dei concetti ancora a venire). Molte sono le idee di dio e molti sono l’unico Dio o non-Dio: unico invece è il principio verso il quale è rivolta la fides, la disponibilità interiore che mantiene l'uomo in cammino. Ogni aumento di fides comporta una diminuzione di fede o credenze; ma, attenzione, anche la fides dovrà essere a suo tempo abbandonata, come strumento superato e inutile per il prosieguo.
[Molto tempo dopo avere scritto queste righe ho letto in Capruzzi (Giuseppe Capruzzi, Riflessioni muratorie sulla fede nei vangeli in Acacia, Roma, n. 11, 1982, p. 39): Quando penso allo sviluppo che nel tempo ha avuto il concetto di fede, mi ricordo di un proverbio giapponese: “Prima l’uomo prende il vino, poi il vino prende il vino, poi il vino prende l’uomo”. Questo proverbio (…) esprime un concetto profondo. La progressione (…), che avviene per qualsiasi idea, che iniziandosi nella mente umana, dove ha inizio ogni cosa che ci riguarda, va acquistando progressivamente consistenza, fino a divenire una entità a se stante, non più controllata dall’uomo, ma di cui l’uomo diventa succube, e di cui in definitiva dovrà liberarsi se vorrà tornare ad essere se stesso.
E’ quanto appunto è avvenuto con la “fede”, che nata per servire l’uomo, ha finito col diventare il padrone.

Spesso le immagini mentali diventano talmente forti che la creatura si svincola dal creatore e assume vita autonoma. La soluzione? Distruggere i falsi idoli che l’uomo si è costruito e non crearsene di nuovi.]
Il cristiano religioso spera nella vita eterna e nella resurrezione. Il camminatore assume una posizione che trascende la speranza di vita eterna e si collega al cammino. Da non dogmatico, non sa se raggiungerà la o una o qualche meta o se la raggiungerà in una eventuale vita futura: sa solo che deve camminare e rivolge quindi la speranza, l’antica spes, al cammino. Non speranza di vita eterna, ma speranza di non fermarsi (e tanto peggio se sbaglierà strada, prima o poi se ne accorgerà e correggerà il proprio errore).

Per il religioso si tratta di amare Dio e amare il prossimo come se stesso per amore di Dio. Il primo passo consiste nel comprendere che non si tratta di pietà condiscendente o di semplice compassione (qui il termine non ha l’accezione buddhista). Successivamente si giunge a capire che amore per il prossimo e compassione nel senso buddhista sono la stessa cosa e non sono appannaggio di una religione, ma risultano atteggiamenti propri di qualunque religione e quindi trascendenti qualunque visuale religiosa.

La carità e la compassione non sono che aspetti dell’armonia che il risvegliante deve costruire per sentirsi in accordo con tutto. Se io sono in armonia con il mondo allora conseguentemente comprenderò che sono io stesso aperto in un afflato universale il mio prossimo,e in questa visione di apertura non avvertirò più differenze tra l'io e gli altri; sentirò il desiderio di alleviare o por fine al dolore e specialmente alle cause della sofferenza (e questa è la compassione buddhista). Orbene, nella tradizione aristotelica la caritas è la passione che spinge a porre il bene comune al di sopra del bene individuale (cfr. Maurizio Viroli, Come se Dio ci fosse - Religione e libertà nella storia d'Italia, Torino, 2009, p. 31), quindi nell'accezione completa è la coscienza che spinge ad uscire dalla individualità limitata per assumere una visione più ampia.

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