martedì 26 gennaio 2010

9.6.1 La Ricerca

Per parte mia ribadisco che il cavaliere è colui che ricerca. Ogni uomo è dominato da un desiderio di ricerca: può essere il piccolo piacere quotidiano o la ricerca di un fantasma o di un sogno (l’Eldorado, il passaggio a Nord-Ovest, il tesoro nascosto, il Graal). Il fantasma che lo spinge può dimostrarsi alla fine più reale della realtà. Ma nella ricerca il cavaliere cavalca e quindi governa il cavallo e lo dirige dove vuole, dominando di conseguenza gli istinti e i desideri dell’animale e quindi le proprie passioni e se stesso. Non deve attardarsi alla ricerca di un pastore o di un vescovo (non maestro, ma proprio pastore...
[La figura del pastore è rassicurante: guida, conduce e protegge. Non a caso è stata mutuata nella mitologia di quella che chiamo la religione consolatoria. L’immagine di Cristo Buon Pastore è molto diffusa, come amore pratico che cerca le pecorelle smarrite (nota la finezza: pecorella smarrita, non pecorone stupido che ha perso la strada), il vescovo è chiamato il pastore del popolo a lui affidato.
Non dimenticare: la guida, il pastore ti porta dove vuole lui e impedisce il tuo cammino libero e quindi libero anche di sbagliare (rivaluta la funzione positiva dello sbaglio, perché solo dai propri errori si può imparare)]
... e vescovo, figure ben diverse! Io non sono una pecora, né tanto meno un agnello e non mi compete la qualità della mansuetudine, che non ricerco, anche se mi sforzo di non eccedere nelle passioni), ma deve cercare: spesso fermarsi significa fallire.

L’Ordine del Tempio accoglie i “risanati”, i “dimessi dall’Ospedale di Malta” (sSono però considerazioni parziali, che valgono solamente se la camera di Malta precede quella Templare). Il cavaliere così risanato intraprende il pellegrinaggio in Terrasanta (che non deve essere il luogo geografico Palestina), scontrandosi con saraceni e predoni (le proprie passioni, le vie deviate, gli smarrimenti), accettando pure il rischio di perdersi (il fallimento).

Nel suo errare impara a conoscere la vita e quindi a capire la morte, cioè quel processo di trasformazione che l’uomo chiama morte; cerca il termine intermedio tra vita e morte, la mediana via di mezzo che gli permetta di uscire dalle antinomie insolubili. Bene e male, come vita e morte, essenza e apparenza, spirito e materia, sono aspetti opposti che il libero muratore ha già incontrato nel simbolismo delle due colonne. Ha già risolto apparenti (nel mondo della quotidianità) contraddizioni. Deve ancora affrontare il dilemma fondamentale, quello che colpisce l’uomo in prima persona, quello che alla fin fine è il problema fondamentale dell’uomo: la morte. Il difficile (ecco perché solo a questo punto del cammino se ne può parlare) è percepire la morte non come aspetto assoluto e definitivo, ma come stato di trasformazione (lo si è sempre detto fin dal grado di apprendista, ma una cosa è l’esame intellettuale, un’altra invece viverne l’esperienza).

Il cavaliere non crede all’inferno e quindi non cerca il paradiso: inferno e paradiso sono creazioni della mente umana per prolungare nel post-mortem il senso di giustizia (o di rivalsa?) che nel mondo quotidiano non viene messo in pratica. Non cerca ricompense e non teme punizioni ultraterrene perché non crede in un Padre che premi e punisca secondo regole di un codice etico legato inevitabilmente alle morali e ai costumi del tempo storico.

Il mio paradiso – se proprio devo spiegarlo – è qualcosa di più vicino al nirvana buddhista: la fine dell’impermanenza. E non ci sono madonne e santi né tanto meno il dio assiso in trono con il figlio alla destra e a sinistra chi sa chi.

C’è invece la reintegrazione finale o il finale annullamento della goccia d’acqua che ritorna al mare, ammesso che ci sia il mare; non c’è comunque la sopravvivenza di una qualunque mia individualità dopo la morte, come fa reputare il cristianesimo e di rimando pure il rituale. Se dovessi usare un termine non troppo scorretto userei il buddhista vacuità, nel senso di un ritorno al principio di partenza, alle infinite potenzialità (con la maturità ottenuta dall’esperienza compiuta).

Per essere comunque obiettivo, devo riconoscere che non tutto il cristianesimo sostiene la sopravvivenza individuale: vi sono infatti teologi cristiani che non vedono dissonanze tra il post mortem del cristianesimo e – per esempio – quello del buddhismo. Hans Küng (cfr. Cristianesimo e religioni universali, Milano, 1986, p. 386), tanto per fare un nome, sostiene appunto non esserci differenze tra lo stato finale positivo del cristianesimo (vita eterna) e lo stato finale positivo del buddhismo (nirvana), precisando che la vita eterna del cristiano non può essere descritta dai nostri parametri mentali (sopravvivenza individuale, gioia e felicità) legati necessariamente alla vita - spiega Küng - quotidiana, ma sarà uno stato tutto da sperimentare e da non poter ora descrivere. Insomma nell’un caso e nell’altro si tratta della classica “altra sponda”. E nell’un caso e nell’altro nulla impedisce di concepirvi l’annullamento nella totalità o altro.

E’ una concezione che mi è più vicina, anche perché supera i particolarismi religiosi e ridimensiona nel folklore religioso l’immortalità dell’anima (che prolunga la consolazione della sopravvivenza individuale esorcizzando la paura della morte), le immagini monarchiche dei troni celesti e dei cori angelici e pure le vergini illibate ma pronte a far godere il fedele mussulmano morto in una guerra santa solo per lui
[Condivido la conclusione di Küng, anche se mi permetto di dubitare che sia del cristianesimo tutto e non di qualche cristiano. In Küng sembra accolta l’idea dell’annientamento (specie alla luce della sua spiegazione di termini apparentemente negativi che l’uomo occidentale comunque accoglie, quali l’Inconcepibile, l’Ineffabile, l’annullamento in Dio), mentre in altri sembra prevalere l’idea della sopravvivenza post mortem di una certa individualità: senza polemizzare fin troppo facilmente con certa liturgia “minore”, ma non per questo ininfluente, del tipo Salvami dalle fiamme dell’inferno, Non permettere che bruci nelle fiamme (appunto salva me, non permettere che io bruci, ecc.), è sufficiente ricordare la liturgia della messa in cui si chiede: Di’ una sola parola e io sarò salvo (precisamente io mi salverò, non specificando, ma sottintendendo, che sopravviverà qualcosa di me).]
Posso accettare il concetto di guerra ai nemici della religione cristiana solo nel senso simbolico di guerra contro i miei nemici interiori. Non accetto l’idea di guerra contro i nemici della religione cristiana (ammesso che esista una religione cristiana, visto che i cristiani hanno passato la maggior parte degli ultimi venti secoli ad ammazzarsi tra di loro) perché a questo punto del mio cammino non accetto più il concetto di religione.

La religione è stata ed è ancora oggi uno strumento praticabile per il fedele, per chi percorre un cammino anche personale ma entro paletti prestabiliti e invalicabili.

Il camminatore invece si rende conto dei limiti della religione e riconosce alla base dei diversi credi princìpi somiglianti, magari enunciati spazio-temporalmente in modo diverso, mentre l’uomo di religione intende incanalare il sacro entro canoni costituiti e per così dire “comandarlo”.
Un esempio per tutti. Il rito del matrimonio cattolico prevede la prescrizione non separi l’uomo ciò che Dio ha unito, come se la celebrazione “obbligasse” la divinità ad unire ciò che l’uomo (in questo caso gli sposi e/o il sacerdote) vogliono unire. E’ quindi un comando cui la divinità ubbidisce (deve ubbidire).

Troppo spesso nel corso della storia l’uomo ha “comandato” alla divinità per sacralizzare i propri atti.
Troppo spesso l’uomo ha parlato in nome di dio per affermare ciò che l’uomo (non dio) voleva dire.
Troppo spesso l’uomo ha rivelato in nome di dio per affermare ciò che l’uomo (non dio) voleva rivelare.
Troppo spesso l’uomo ha comandato in nome di dio per affermare ciò che l’uomo (non dio) voleva comandare.
Troppo spesso l’uomo ha benedetto in nome di dio per affermare ciò che l’uomo (non dio) voleva benedire.
Troppo spesso l’uomo ha maledetto in nome di dio per affermare ciò che l’uomo (non dio) voleva maledire.
Troppo spesso l’uomo ha combattuto in nome di dio per affermare ciò che l’uomo (non dio) voleva combattere.
Troppo spesso l’uomo ha condannato in nome di dio per affermare ciò che l’uomo (non dio) voleva condannare.

Io considero guerra e pace come facce della stessa medaglia, polarità diverse della stessa realtà. Io sono il mio nemico e dal punto di vista simbolico la pace è un momento di stasi tra due mie guerre interiori come la guerra è un passaggio tra mie due paci interiori (la seconda diversa e più profonda della prima perché ho sconfitto un altro mio nemico).

Il Cavaliere deve essere l’esempio dell’uomo che ricerca, non il campione che difende la propria causa e la propria religione. Io non so se storicamente sono veri gli incontri che all'epoca cavalieri templari e cavalieri arabi avrebbero tenuto negli intervalli tra le battaglie. Personalmente dubito si siano mai verificati (almeno non in modo generalizzato e forse solo per qualcuno), ma simbolicamente sono molto significativi: il combattente per la propria causa non è fazioso e capisce che anche l'avversario può essere un "compagno di cammino" nella ricerca spirituale. Il Cavaliere arturiano va alla ricerca del Graal. Il Cavaliere templare si pone l’obiettivo della difesa del pellegrinaggio in terra santa, del suo pellegrinaggio nella sua Terrasanta.

Il massone in cammino non deve darsi fuorviare dalla veste esteriore cristiana. Il Cavaliere Templare deve essere - se effettivamente massone - libero ricercatore e svincolarsi dalla esteriorità della religione non solo delle singole fedi (cristiane). Dopo aver lavorato nelle camere precedenti in assonanza e comunanza con il gruppo-cantiere ora ricerca da solo e liberamente.

Ricerca da solo. Non sa dove giungerà, ma è disposto a mettersi in gioco. Ciò che raggiungerà (se raggiungerà qualcosa) sarà “suo”, sarà “sua conquista”. Perderà, si perderà, verrà perso? Non è detto. Ma chi vuole ottenere qualcosa deve anche rischiare qualcosa; chi vuole ottenere molto, deve rischiare molto.

Parlo per esperienza personale. Quel poco che ho raggiunto mi ha scombussolato e ha rivoltato la mia visione e le mie concezioni. Ho “compreso” – non solo capito – la provvisorietà di ogni nostra conquista. O noi, nostra generazione! Noi siamo lo scalino, non la scala… scrisse Evtushenko.

O noi cavalieri che cerchiamo – posso imitarlo io – noi cerchiamo, ma non sappiamo cosa troveremo… E quello che troveremo saremo noi… E non saremo noi…

Qui insomma si verifica l’incontro dell’uomo con la religione. E’ uno dei più drammatici che l’uomo possa accettare, ma è fondamentale nel divenire, e ben a proposito non avviene ai primi passi (potrebbe essere prematuro e un problema di impossibile soluzione).

Pesa sicuramente l’educazione e la situazione sociale nella quale dobbiamo pur vivere. Chi non ricorda le suggestioni di certe cerimonie religiose dell’infanzia: la prima comunione, la cresima, le frequentazioni con gruppi religiosi? O il rito religioso del matrimonio?

Non è facile nell’età adulta affrontare criticamente situazioni che ormai vengono ricoperti dai ricordi individuali (una specie di buone cose di pessimo gusto di gozzaniana memoria). I dolci ricordi legano e non sempre si riesce a delinearli come impacci da cui liberarsi, come scorie che appesantiscono il progredire e possono talmente ostacolare da rallentare o far fermare. Profanamente non mancano spunti che possono spingere alla meditazione sul fenomeno religione, ma ritengo che senza una preparazione specifica non possa esserci attività feconda. Così l’opinione di quel sacerdote che disse: Dieu? Connais pas. Je connais le Christ et l’humanité (cit. in Guglielmo Levi, La coscienza religiosa del Massone, in Hiram, Roma, n. 1 1980, p.8) resterà sterile senza un preventivo lavoro su se stessi che ci liberi da una parte dai legami della religione e dall’altra dai pericoli della negazione della religione.

Simbolicamente è penetrante la virtù dei Cavalieri Templari (di Scozia) che escono in ricognizione nel deserto, incontrano il pellegrino e lo rifocillano. Risultano talmente efficaci nel loro vivere esemplare, che il pellegrino comprende che l’esperienza templare può aiutarlo nel percorrere la via e chiede di entrare nell’ordine, combatte gli infedeli (che per il massone non possono essere i nemici del Vangelo) che si oppongono al suo viaggio e riesce a bere il vino della sapienza a ridosso della porta della morte.

Nel momento in cui il ricercatore, già Maestro Muratore, già Maestro dell’Arco Reale, si impegna nell’esperienza cavalleresca, deve essere in grado di affrontare una delle prove che possono risultare più impegnative: si deve liberare dai vincoli di una religione vissuta sul piano materiale e sociale, incontrare le proprie esigenze di assoluto e “fare i conti con queste”. Deve riconoscere i propri limiti e le proprie debolezze individuando al contempo le proprie potenzialità. Soprattutto, essendo il lavoro incentrato sul rapporto di se stesso con la religione (non questa o quella religione, ma la religione) riconoscere che è espressione particolare della Conoscenza. Il cavaliere invece è ormai completamente autonomo nel cammino e ha già imparato a procedere da solo: può quindi oltrepassarne i limiti realizzando il volo della colomba noachita che, dopo aver riportato al patriarca Noè, padre dell’umanità post-diluviana precedente le singole suddivisioni in razze e religioni, il ramoscello di ulivo, si invola e sorpassa definitivamente l’orizzonte senza far più ritorno.

Senso della trascendenza non implica la religione o il canone di una religione. Per cui a questo punto non è più problema di ateo o non ateo. L’ateo integrale (sia pure nella versione dell'uomo moderno) non esiste (se non altro crede di non credere…) e, ora più che mai, non mi pare lecito rifiutarne l’ammissione alla Libera Muratoria come prescriveva il pastore Anderson.

L’afflato di apertura che si respira nella camera Rosa-Croce è molto pronunciato. Appare l’approdo quasi necessario del cavaliere templare vittorioso sui nemici (anche se a mia conoscenza non esiste un sistema muratorio nel quale il Principe Rosa-Croce segue la camera del Cavaliere del Tempio). Infatti, sconfitti i propri nemici, il principe Rosa-Croce si rende conto che le singole religioni, se correttamente intese, hanno in sé un nucleo comune universale che le varie liturgie non riescono a nascondere, ma nemmeno a comprendere.

Non nego la pregnanza di atti propri della religione, per i quali esiste una motivazione non sempre immediatamente percepibile, ma significativa. E’ certo sostanziale che numerosissime persone contemporaneamente si concentrino sullo stesso simbolo o compiano lo stesso atto o partecipino alla stessa cerimonia, perché in tal modo si “costruisce” o si vivifica “qualcosa”. Si pensi per esempio alla “magia” della notte di Natale: non è una proprietà del tempo per cui quella particolare notte è diversa dalle altre per una caratteristica peculiare sua propria, bensì è la percezione di qualcosa messo in moto da milioni di persone che in quel momento e si concentrano sugli stessi simboli e partecipano agli stessi riti.

Le religioni affondano le radici nel patrimonio spirituale dell’umanità, materialmente scolpite nel retaggio genetico dell’uomo. Da queste premesse, continuando la cerca del Graal, il Rosa-Croce può raggiungere l’essenza stessa della Religione (superando - senza negarle - le religioni): la cristicità, la buddhità o come dir si voglia.

Il Rosa-Croce contestualizza gli aspetti della religione in ottica universale. Ad esempio il termine pastore non indica il pastore vescovo come figura cui affidarsi in un afflato consolatorio, bensì un fratello esperto che può indicare la via agli altri: un maestro, non il maestro. Nella Camera manca del tutto l’atmosfera devozionale e si è portati quasi a raggiungere l’universalità della sacralità, quell’aspetto che ha portato gli uomini al divino prima e alla religione poi.

Noi non abbiamo ancora trovato la verità eterna. Abbiamo solo trovato il cammino che ci porta così vicino onde l’intelligenza umana possa intuirla, dice a un certo punto il Saggissimo, che all’atto della cerimonia di consegna della spada al neo cavaliere lo ammonisce ad usarla soltanto per difendere il diritto e non i valori di una qualche religione.

Anche la Cena rituale con pane e vino, che chiude i lavori del capitolo Rosa-Croce, viene riferita al lavoro muratorio dal quale assume pieno senso, trasformandosi così in un pasto sacro al di fuori dei riferimenti a religioni particolari. La Cena che noi stiamo per consumare – avverte il Saggissimo – è forse il ricordo di quella che fece Gesù cogli Apostoli… Qualunque ne sia l’origine, tal Cena è un rito consacrato dagli undici Rosa Croce del VI secolo…Il nutrimento che ora prenderemo rappresenta il nostro corpo e il nostro sangue. Che esso ci aumenti le forze della vita!

Si tratta di un vero e proprio pasto sacro, al di fuori di impalcature di religioni.

Dubito molto che si possa indicare il Principe Rosa-Croce come uno dei gradi cristiani (qualche autore giunge fino a ritenerlo il grado più cattolico!) della massoneria. Ritengo anzi che possa essere uno dei gradi più significativi dell’iter di un libero muratore. E’ ben vero che nell’Ordine (il complesso dei primi tre gradi: Apprendista, Compagno d’Arte, Maestro Libero Muratore) è racchiuso tutto il percorso muratorio, ma è sicuramente utile al massone avere la possibilità di lavorare in camere che enucleino modalità particolari, presenti ma non evidenziate nei primi tre gradi.

Al recipiendario Rosa-Croce viene insegnato che Fede, Speranza e Carità sono i tre pilastri della nuova legge.

Ma subito segue la puntualizzazione inserendole in un quadro in cui tutte le credenze sono considerate transitorie e parziali. Ad orecchie comuni, invece, le parole fede, speranza e carità richiamano immediatamente le tre virtù teologali: fede in Dio, speranza nella vita eterna e carità verso il prossimo.

Molti massoni avanzano una interpretazione analoga: non esplicitamente propria di una confessione religione, ma sicuramente entro quell’alveo. La cosa non può stupire se – specie nel mondo anglosassone – ribadita la cristianità dell’evento Massoneria, per non perderne l’universalità si ammette il termine Grande Architetto, ma lo si considera più o meno implicitamente sinonimo del Dio della o di una religione. In www.zen-it.com si legge (in Il quadro di Loggia degli Apprendisti): La copertura di una Loggia di Massoni è una canopia di diversi colori, che arriva fino ai Cieli. Noi speriamo di arrivare in cima con l'aiuto di una scala, chiamata nelle Scritture la Scala di Giacobbe. Questa scala ha tanti gradini da comprendere tutte le morali virtù, ma tre sono le principali: Fede, Speranza e Carità. Fede nel G A D U; Speranza nella salvezza; e Carità verso ogni persona.
[Quale è la differenza tra le frasi «Fede nel GADU; Speranza nella salvezza; e Carità verso ogni persona» e «Fede in Dio; Speranza nella salvezza; e Carità verso ogni persona», se non un mero aspetto linguistico, appunto Gadu invece di Dio? Nelle intenzioni dell’autore (per altro molto diffuse tra i massoni di oggi) si pone una equivalenza pressoché totale tra Dio e Gadu, con buona pace dell’universalità massonica (si confronti anche la posizione della Gran Loggia d’Inghilterra).]
Questa scala poggia sul Volume della Legge Sacra , perché le dottrine contenute in questo Santo Libro ci insegnano a credere che la Divina Provvidenza distribuisce largamente i suoi doni: e questa dottrina rafforza la nostra Fede e ci permette di ascendere il primo gradino. Perciò la Fede naturalmente crea in noi una Speranza di partecipare alle beate promesse in quel Libro contenute: questa Speranza ci permette di ascendere il secondo gradino. Ma la terza ed ultima, la Carità, comprende tutto, e il Massone che possiede questa virtù nel suo senso più alto, si può considerare che sia arrivato al sommo della Massoneria:
[O anche, non mutatis mutandis, al sommo di una qualche religione cristiana.]
si trova, figurativamente parlando, in una dimora eterea, velata agli occhi mortali dal firmamento stellato. Essa è emblematicamente rappresentata nelle nostre Logge da sette stelle, che sono in rapporto coi sette Massoni regolari, senza i quali nessuna Loggia è perfetta: e dunque, nessun candidato può esservi legalmente iniziato. Il riferimento al GADU come il Dio cristiano-rivelato (non proprio di una religione cristiana particolare, ma sicuramente non incoerente con le varie confessioni cristiane) è a mio parere chiaro.

E’ invece sulla nozione stessa di rivelazione che si deve lavorare. La rivelazione cristiana viene intesa come la manifestazione del dio nella storia, rivelazione che ha portato a quella e solo a quella religione. La Gran Loggia Unita d'Inghilterra aveva già parlato di volontà rivelata del Grande Architetto. Per il camminatore invece la rivelazione diventa la percezione della molteplicità delle espressioni religiose per cui la manifestazione avviene – come insegnava Carlo Gentile – nella coscienza dell’uomo. In quel tempo e in quel luogo, aggiungo io. Infatti io intendo rivelazione come rivalutazione della capacità conoscitiva dell’atto intuitivo, non come verità che un dio comunica all’uomo. Segue che rivelazione non è data nella storia una volta per tutte e per tutti, ma è continuo svelarsi e rivelarsi uomo dopo uomo, momento dopo momento, situazione dopo situazione.

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