venerdì 25 settembre 2009

5.1 La morte

Cosa è la morte?

Le iniziazioni al grado di Apprendista e di Maestro comportano una morte e una rinascita. Ciò induce a considerare la morte come un cambiamento del modo di esistere, di vivere, della coscienza, piuttosto che il termine della vita. Ecco: un cambiamento di stato della coscienza, un passaggio da una forma di vita a un'altra.

Quindi si deve morire per diventare Apprendisti e Maestri, ma non è necessario morire per diventare Compagni.

La morte è il punto critico di una metamorfosi, suggerimento che ci viene meditando sull'essere la notte sempre seguita dal giorno e l'inverno dalla primavera. Muore il seme perché nasca la pianta; muore la pianta, ma lascia il seme.

Alcuni vedono nella leggenda di Hiram la rappresentazione del cammino del Sole, altri adattamenti morali o filosofici: ogni simbolo è una chiave universale, adattabile a molte interpretazioni.

N. B.
Ricordiamo però che non esiste un linguaggio “eterno” od “assoluto”, nemmeno quello simbolico. Tutti i linguaggi sono caratterizzati (e limitati) dalle capacità espressive ed intellettive dell’uomo, le quali sono sicuramente legate alla “storia” (evolutiva) dell’uomo. Se ieri si comprendeva in un modo, oggi si capisce in modo diverso (più ampio?) e domani in un altro ancora.
Il simbolo può forse rappresentare più ampiamente del linguaggio parlato, ma la comprensione del simbolo è sicuramente legata alle capacità e alla sensibilità che dipendono dalla propria “storia evolutiva”. Quelle verità sono tali per l’epoca storica “personale” e “sociale” di siffatte espressioni. L’uomo riesce ad esprimere verità che trascendono l’evento linguistico solamente utilizzando un linguaggio simbolico (linguaggio dei simboli).


La chiave di lettura è infatti contestualizzata allo stato di chi lo interpreta, per cui la sua comprensione può essere riduttiva e quindi poco proficua al lavoro simbolico. La iniziazione al Terzo Grado – se realmente vissuta - provoca effettivamente un cambiamento.
Un fratello mi ha scritto: Credo che in massoneria il termine "iniziazione" sia usato impropriamente attribuendogli il significato di punto di arrivo irraggiungibile, utopico per ogni libero muratore. L'azione di iniziare è la prima ma non l'unica. Ognuno di noi inizia o viene iniziato, si depura, si eleva e si ricongiunge per poi ri-iniziare in una dimensione differente. L'energia inesauribile è l'amore, il catalizzatore è la parola (o simbolo) e il metodo è quello dell'uso proprio della ragione (se vuoi il metodo massonico). Le paure sono tante.
A mio parere non esiste l'iniziato ma l'illuminato (termine che preferisco, ma da non considerare come qualcuno che “illumina” gli altri): intendo chi raggiunge “qualcosa” intuendo il senza tempo e il senza spazio.


Dice un antico catechismo:
- Siete voi Maestro?
- Ho pianto e riso, mi sono rallegrato e querelato.
- Di che?
- Di ciò che il Maestro è morto e resuscitato.
- Come posso accertarmi che voi siete il vero Maestro?
- Conoscendo che io posso uccidervi e resuscitarvi
.

Qui sta il punto cruciale: il Libero Muratore è posto sulla soglia del proprio Tempio interiore. Può fermarsi o retrocedere, oppure può proseguire: ma a lui solo spetta la decisione.

Spesso ascolto massoni disquisire sulla iniziazione, come se fosse un «aumento di poteri» concesso o conquistato da chi si pone in una certa ottica. Sono invece fermamente convinto che chi ha raggiunto questi «poteri» (ammesso che esistano e che si possano effettivamente raggiungere) tace e chi parla invece non li ha raggiunti e dimostra solo di aver lavorato su un piano meramente intellettuale (certo importante, ma non l’unico e nemmeno il più significativo) mostrando pure una non trascurabile inclinazione all’esibizionismo e al protagonismo. Probabilmente uno degli handicap della civiltà occidentale è un eccesso di razionalismo e simmetricamente uno degli handicap della civiltà orientale ne è l'insufficienza (eccesso contrario). La conseguenza è la difficoltà dell’uomo occidentale di lavorare su piani diversi da quello (intellettuale) della ragione e della logica e la conseguente difficoltà ad apprendere un metodo di lavoro interiore quale appunto quello muratorio.

Il punto fondamentale di partenza è infatti il motivo principale per cui un uomo sente crescere dentro sé quella insoddisfazione, prima sottile, poi via via più determinante, che lo spinge a cercare: non sa cosa, non sa dove, ma sa che deve cercare.

Noi ci appaghiamo (almeno su un piano intellettuale) con la ricerca delle risposte alle sempre presenti domande: chi sono? Da dove vengo? Dove vado?
Ma se riflettiamo con mente aperta e con cuore non condizionato o non legato dagli schematismi che ci siamo costruiti, possiamo cogliere il punto essenziale di partenza, che io vedo soprattutto nel senso della morte.

Mi spiego. La società contemporanea occidentale (nella quale ci siamo formati) ha in un certo senso esorcizzato la morte, relegandola in un angolo nascosto. Si muore prevalentemente in ospedale, in un ambiente asettico, lontano dall’ambiente familiare e senza dar “fastidio” alla famiglia. La morte è quasi nascosta e non considerata (l’uomo occidentale ha perso il senso della vita è non può conseguentemente comprendere il senso della morte).

Ma la morte – come la vita – non si nasconde e compare prepotentemente quando meno te l’aspetti. Si mostra e non la puoi occultare. A volte (troppo spesso) ti passa vicino e mostra la tua impotenza che avevi nascosto nelle pieghe del logicismo e della tecnologia.

Il massone parla di morte, di seconda morte, di rinascita, di Hiram e dei cattivi compagni che lo uccidono. Ha pronta una bella spiegazione intellettuale di seconda morte come morte al mondo profano, come morte alle passioni e di rinascita come superamento delle passioni, dell’orgoglio e dell’ignoranza. Ma attento – fratello! E se la morte fosse proprio la tua (e sottolineo tua) morte fisica (sora nostra morte corporale, la chiamò il grande Francesco). Quel qualcosa che prima della comparsa ti fa essere qui, con i tuoi acciacchi e le tue caratteristiche, ma dopo la sua venuta ti fa essere là, un cadavere senza movimento e senza calore, come quel pezzo di carne che compri al supermercato e poni in frigorifero perché non si deteriori, e che dopo pochi giorni si decompone (diventa cioè carne marcia maleodorante che non vediamo solo perché chiusa in una cassa sigillata…).

Ecco, credo che spinta al lavoro interiore sia appunto la morte, non la morte intellettuale, ma la morte fisica: la tua morte fisica, la mia morte fisica.

Forse le tre domande si riducono a una sola, drammatica e per molti senza risposta: perché si muore? Perché debbo morire proprio io?

L’uomo contemporaneo qui si ferma. Ribadisce la propria contraddittorietà e la propria ribellione (a che cosa?). Ribadisce insomma la propria impotenza e mostra la fragilità di un vivere non secondo armonia, ma secondo presunzione. E non sa camminare da solo.


LA MORTE: POSTILLA
Rilassati e pensa: Tu sei, ora.

TU. Chi sei tu? Guardati la mano. Tu sei la mano? La mano è te? Ti identifichi con la mano o la mano è qualcosa di te, qualcosa di utile, qualcosa che puoi anche buttare via? Tu sei il corpo? Il corpo è te? Attenzione: io sono io? Oppure è tutta illusione? Ma io, esisto o anche questa è finzione? Ciò che chiamo io è quello che comunemente si pensa (corpo fisico, vitalità, pensieri, memoria) o è qualcosa di diverso? Se non ho memoria posso ancora dire che sono io? Se non ho pensiero posso ancora dire che sono io?

SEI. Essere. Essere o non essere? Essere dove, quando, come? Essere ora, oggi, magari domani, e dopo?… non essere? La fine, il principio?…. Oppure principio e fine?

ORA. Il tempo. L’eternità. L’eternità oltre il tempo o l’eternità essenza del tempo? Per tutto c’è il suo tempo, dice il Qohelet (al capitolo terzo), (anche il tempo della mia morte) ma io debbo raggiungere il non tempo. L’eternità è l’attimo fuggente? L’attimo fuggente è l’eternità ? O nessuna delle due?

[C’è] un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piantare e un tempo per sradicare ciò che è piantato.
Attenzione: non solo è ribadita la fondamentale distinzione tra il nascere e il morire. Il Qohelet insiste sul "tempo per…" in quanto sottolinea la ricerca del “tempo giusto”. Come c’è un tempo giusto per piantare e per sradicare (e non è possibile piantare nel tempo giusto per sradicare, e viceversa), così c’è un tempo giusto per nascere e un tempo giusto per morire. Riuscirà il camminatore a comprendere quando è il tempo giusto per morire, evitando improponibili e insinceri cambiamenti di strada dovuti ad esempio alla senescenza o alla mancanza di energia?

C’è un non tempo per non nascere e un non tempo per non morire; un non tempo per non piantare e un non tempo per non sradicare ciò che non si è piantato.

[C’è] un tempo per uccidere e un tempo per guarire, un tempo per demolire e un tempo per costruire.

C’è un non tempo per non uccidere e un non tempo per non guarire, un non tempo per non demolire e un non tempo per non costruire.

C’è un tempo e c’è un non tempo… Non riesco a darmi le risposte. I miei ricordi mi tengono legato alla personalità, alla mia storia personale, al mio mondo. Sento, so, che oggi sono il risultato di quello che ho fatto, ma non riesco a liberarmene. Mi legano. Il Pardes, il Giardino, è liberarsene. E’ Giosuè che ferma il sole; è Faust che raggiunge la pienezza dell’attimo fuggente. E’ Dante che non riesce a riferire: e questo, a quel ch'i' vidi, / è tanto, che non basta a dicer 'poco' (Paradiso, XXXIII, 122-23).

Io, tu, lui, tutti noi, abbiamo un appuntamento con la nera signora laggiù a Samarcanda. Dobbiamo essere preparati: teniamo la valigia pronta e a portata di mano. Il resto non ha importanza.

[Mi riferisco ad un’antica leggenda russa, messa qualche anno fa in musica da Vecchioni. Un soldato incontra una donna vestita di nero che lo spaventa. Fugge a folle velocità fino a Samarcanda, dove però la ritrova: infatti proprio in quella lontana città in quel giorno aveva un appuntamento con la nera signora e lui non era mancato all’appuntamento…].

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