giovedì 17 settembre 2009

3.8.9 Il segreto

Caratteristico del lavoro muratorio è il cosiddetto segreto.

E’ forse una delle specificità massoniche più conclamate dai non massoni (specialmente organi di stampa).

Non posso non negare che troppo spesso in passato critiche al segreto hanno avuto origine proprio da comportamenti non esemplari di massoni (o pseudo tali, ma appartenenti amministrativamente all’istituzione).

Da camminatore invece mi pongo il problema del segreto su un piano ben diverso, non interessandomi del comportamento di pseudo massoni (che io comunque non considero fratelli).

Il punto di partenza si trova nel massone Casanova (citatissimo, ma solo in questo caso): ha scritto del segreto che chi l'ha compreso
quando lo ha conosciuto si guarda bene dal far parte della scoperta a chichessia, sia pure il miglior amico massone, perché se costui non è stato capace di penetrare il mistero non sarà nemmeno capace di profittarne se lo apprenderà da altri. Il mistero rimarrà sempre tale.
Casanova ribadisce un concetto basilare: necessariamente deve essere tenuta segreta una verità a chi non è in grado di intuirla (è pure il senso del versetto evangelico Non date ciò che è santo ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci, perché non le pestino con le zampe e rivolti contro di voi non vi sbranino. Matteo 7 6); essa infatti deve essere raggiunta da ciascuno secondo le proprie capacità: se fosse svelata non sarebbe più tale e non avrebbe valore per chi non l'ha conquistata da solo.

Troviamo il richiamo alla necessità del segreto in tutte le istituzioni e sistemi tradizionali. Si può per esempio citare la scuola pitagorica (i Versi Aurei prescrivono: "Venera anzitutto gli Dei immortali, secondo la legge, e serba il giuramento") e la tradizione islamica:
Il segreto va tenuto nascosto a tutti gli indegni.
I misteri van celati agli sciocchi.
Guarda a come agisci sul conto degli uomini.
A tutti gli uomini van tenute occulte le nostre intime speranze
.
[Omar Khayyam, Quartine, Roma, 1973].

Anche l'ebraismo ha i suoi segreti. Si pensi a Mosè che scese dal monte con le due tavole della testimonianza nella sua mano, tavole scritte dai loro due lati: esse erano scritte da un lato e dall'altro.[Esodo, 38 15. Poco prima (Esodo 32 15): tavole scritti su entrambi i lati, davanti e di dietro].

Scritte da entrambi i lati (concetto ribadito due volte) può significare forse che Mosè accolse una legge , divulgata, in un certo senso "esterna", e una scritta dall'altro lato per per coloro che vogliono e riescono a trovarla e comprenderne il senso.

Giovanni ribadisce lo stesso concetto: E quando ebbero parlato i sette tuoni, io stavo per scrivere, ma udii una voce dal cielo che diceva: "Sigilla quanto hanno proferito i sette tuoni e non scriverlo".[Apocalisse, 10 4].

Paolo afferma: E udii parole ineffabili che non è dato all'uomo di poter esprimere.[2 Corinzi, 12 4].

Infatti - commenta Origene - era possibile agli angeli profferirle ma non agli uomini, perché “tutto è lecito, ma non tutto giova” (1 Corinzi 6 12). [Cfr. Origene, Commento al vangelo di Giovanni, Torino, 1966].

Ricorda il Reghini [cfr. Le parole sacre e di passo, Roma, 1968] che nella chiesa primitiva si facevano uscire i fedeli comuni prima di leggere il Vangelo di Giovanni, riservato agli iniziati. Oggi chiunque lo può leggere o ascoltare, ma il suo segreto è solo per chi riesce a comprenderlo.

Dunque la scrittura non è il metodo più adatto per comunicare; essa è solo un mezzo per tentare di diffondere: ma è impossibile trasmettere cose che non sono comunicabili. Anzi, la scrittura alla fin fine può risultare - come spesso sono i conduttori - di ostacolo.

Sorge allora la necessità del simbolo. Nel vangelo di Filippo è detto: La verità non è venuta nuda al mondo, ma è venuta in simboli e immagini. Il mondo non la può ricevere altrimenti. Il simbolo è il veicolo della ricerca della verità.

Ma cosa è la verità?

Io non parlo di verità, perché la verità non è di questo mondo e chi proclama di possederla in realtà illude se stesso e gli altri.

Io parlo di ricerca, non di fede. Io parlo di cammino, non di sosta, né di arrivo. Cammino perché so di doverlo fare. Se non lo sapessi mi accontenterei di altro.

Come primo atto dobbiamo intervenire su noi stessi, per far vivere dentro di noi i simboli come esperienza attuale, effettiva e completa. E quindi come "oggetti parlanti".

Il simbolo aiuta la ricerca ed è un potente strumento di comunicazione, un linguaggio molto più immediato del linguaggio comune o di un qualunque altro linguaggio.

Scrive in una sua opera divulgativa il matematico du Sautoy:
L'abilità di Weil [André Weil (fratello di Simone), uno dei maggiori matematici del Novecento] nel muoversi in alcuni di questi paesaggi [della matematica], dove altri avevano fallito, può essere ricondotta alla sua vecchia passione per le lingue antiche, e specialmente per il sanscrito. Egli riteneva che lo sviluppo di nuove idee matematiche procedesse di pari passo con lo sviluppo di forme linguistiche elaborate. Per Weil non era certo una sorpresa il fatto che in India l'invenzione della grammatica avesse preceduto quella del sistema decimale e dei numeri negativi, e che l'algebra degli arabi fosse nata dal sofisticato sviluppo della lingua araba nel periodo medievale.
[Marcus du Sautoy, L'enigma dei numeri primi, Milano, 2004, pp. 439-440].

Il linguaggio del simbolo infatti è uno strumento che non nega e non afferma, ma raffigura. Si potrebbe quasi dire che il simbolo con la sua indeterminatezza permette la massima comprensibilità possibile: il camminatore ha infatti imparato che per essere precisi bisogna saper essere imprecisi. Quindi il simbolo permette un lavoro non ristretto nei limiti di descrizioni (e quindi interpretazioni) riduttive, spesso imposte e non proprie.

La via è infatti personale e solo noi possiamo trovarla e percorrerla. Altri potranno dare utili indicazioni e consigli, ma il maestro è dentro di noi ed è maestro solo per noi.

Anche se alla sensibilità dell’uomo di inizio millennio la necessità del segreto risulta politicamente scorretta (va infatti contro le regole della trasparenza e della comunicazione di tutto a tutti vigenti nella società in cui viviamo - però si dimentica che eccesso di informazioni e carenza di informazioni possono essere molto analoghi), è comunque coerente con il metodo del camminatore. Se infatti accetto che i risultati della mia ricerca (le mie verità di oggi, e parziali) dipendano dall’uso combinato di attività razionali ed extra-razionali (per comodità indicate genericamente con ragione e intuizione), debbo conseguentemente concludere che se è possibile comunicare ad altri risultati razionali (affermazione che andrebbe comunque puntualizzata: anche i filosofi più antimetafisici sono stati costretti a riconoscere l'esistenza di qualcosa di indicibile e di indefinibile, se non altro la possibilità di comprendersi, e la matematica stessa - scienza razionale per eccellenza - è obbligata a partire da asserzioni extra-logiche, da un atto di fede, come scrisse un matematico), sicuramente (direi quasi necessariamente) è impossibile trasmettere completamente ad altri un mio risultato soltanto intuito, e non dimostrato.

Simbolicamente l’impossibilità di comunicazione viene indicata come segreto massonico.

In un’epoca nella quale la trasparenza diventa quasi modalità di vita, ribadire la necessità del segreto o del silenzio dell’apprendista (quando democrazia vuole che chiunque possa parlare e votare) è sicuramente un fatto contro corrente, che non tutti sono in grado o vogliono comprendere.

Senza cadere nella fin troppo facile polemica contro chi sollevò e solleva polveroni sul segreto e i cappucci (magari partendo da oggettivi e squallidi episodi con protagonisti massoni), è certo ben difficile che la persona abituata a prevaricare – anche solo a parole – sull’interlocutore possa comprendere la validità di un insegnamento (che nel massone dovrebbe arrivare ad essere un vero habitus mentale) che parte dall’indicazione di tacere. Ero appena entrato nell’Istituzione quando un vecchio fratello mi insegnò: devi imparare a tacere e a parlare solo quando hai qualcosa da dire; e anche in questo caso aspetta, forse qualcuno lo dirà meglio di te.
Non sempre riesco a seguire questa piccola regola aurea.

Il camminatore sa che lo scritto è utile e la parola aiuta; ma sa anche che la meta non si raggiunge con lo scritto e con la parola: leggere e parlare non fanno procedere, possono al più aiutare nel cammino (ma non sempre).

Suona beffardo che proprio nella società di comunicazione di massa sia così alto il senso di incomunicabilità dell’uomo e il suo sentirsi solo e isolato! Certamente comprese De Maistre che la costruzione e l’uso di linguaggi sempre più specialistici e raffinati, ma settoriali, è proporzionale alla scomparsa del senso di completezza nell'uomo e che la “degradazione” della lingua in micro-linguaggi è segno dell’incapacità crescente degli uomini di comprendersi e quindi perdita di concezioni unificanti e sintomo di divisioni e ripartizioni. Sicuramente l’uso del linguaggio non garantisce della sincerità dell’interlocutore. De Maistre suona oggi quasi profetico: l'uso odierno del linguaggio o di linguaggi particolari ritenuti altamente specializzati si può tradizionalmente descrivere come uso del rumore.

Nel mondo materiale e materialista è, infatti, il rumore l'unica forma di comunicazione umana, e spesso il rumore è usato - non so con quanta efficacia - per cercare di trascendere la materialità (penso ad esempio all’uso oggi invalso di applaudire ai funerali, sostituendo l’armonia di suoni cadenzati o ritmici con la disarmonia del rumore).

Quando l'uomo giunge in questo mondo non è in grado di essere autonomo e dipende in tutto e per tutto dalla propria madre fisica. Non è quindi nemmeno in grado di parlare. Una delle prime conquiste è appunto l'uso della parola, anzi delle parole e quindi del linguaggio, per impadronirsi di uno strumento di comunicazione sul piano fisico.

Non so se la venuta in questo mondo rappresenta, nel procedere dell'uomo, una involuzione da un pre-esistente stato di grazia o una evoluzione verso un futuro stato di universalità oppure una semplice tappa del cammino. Se l'uomo non è totalmente sprofondato nella materialità, se vuole superare la condizione nella quale si trova (imprigionato?) che soffoca il quid che aspira all’altrove, deve dedicarsi ad un lavoro di recupero del proprio universale per raggiungere e far risuonare in sé la potenza e la volontà creatrice (non necessariamente propria di uno stato esterno), che simbolicamente in massoneria è indicata nella Parola Perduta.

Le vie possibili sono molte.

C'è chi percorre un itinerario che si potrebbe grossolanamente indicare come "fideistico", abbandonandosi alla preghiera (non necessariamente intesa nel senso di "do ut des") e alla devozione.

C'è chi segue percorsi diversi.

C'è chi cerca quasi di ripercorrere a ritroso quella che ritiene la via della caduta materiale per ricreare per così dire il momento magico della creazione, della propria "creazione", ritrovare la Parola Perduta e usarla su se stesso.

C’è chi, infine, si mette in cammino, per ricercare forse non sa cosa, ma sicuramente per ritrovare in sé la propria volontà creatrice e trasformarsi in ciò che lo Zarathustra nietzschiano chiamò oltreuomo.

La condizione necessaria (ma non sufficiente) per ricercare è il preliminare raggiungimento del silenzio interiore: parafrasando Gibran, dobbiamo diventare cacciatori del Silenzio.Dal Profeta:
E sono io un’arpa che la mano del Possente possa toccare, o un flauto che il suo fiato possa attraversare?
Un esploratore dei silenzi sono io, e quali tesori ho io trovato nei silenzi perché possa con sicurezza dispensarli?
[Gibran K. Gibran, Tutte le poesie e i racconti, Roma, 1993, p. 60].

Può sembrare contraddittorio contrapporre la Parola al Silenzio, ma se si penetra il senso più nascosto dei termini la contraddizione cade.

Come la Parola non va confusa con le parole, così il Silenzio non deve essere confuso con i silenzi, pure questi aspetto se non del rumore almeno di incapacità creativa. Il Silenzio è condizione al di fuori dello spazio e del tempo. Osserva Boehme:
Quando ti mantieni in silenzio, allora sei ciò che Dio era prima della natura e della materialità, e da cui ha tratto la tua natura e la tua materialità. E allora tu vedi e intendi ciò con cui vedeva e intendeva in te, prima che il tuo volere, vedere e intendere fossero iniziati.
[Jacob Boehme, Confessions, Paris, 1973, p. 182].

Il Silenzio corrisponde alla materia caotica, indifferenziata, alla pietra grezza (Attenzione. Non pietra grezza qualunque, ma pietra grezza preparata!) pronta per le fasi successive del lavoro. Così l'uomo deve "uscire" dalla condizione spazio-temporale in cui si trova e raggiungere il Silenzio. Deve cioè creare la condizione necessaria perché preparando la propria pietra possa risuonare in sé il quid che indichiamo con Parola. In un certo senso il Silenzio viene ad essere quasi la matrice della Parola...

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