venerdì 11 novembre 2016

Oriente Eterno: dialogo tra due Logge

Nell'autunno del 1978 la Loggia Carducci n. 103 di Bologna fece conoscere una tavola "collettiva" nata dalle riflessioni dei Fratelli.
La Loggia Garibaldi n. 520 di Forlì continuò la riflessione.


Il tema che la L. Carducci questa sera pone all’attenzione ed alla riflessione è il frutto del comune lavoro di alcuni appartenenti a questa Officina ove ognuno di essi ha apportato quanto di intimo è scaturito dalle proprie meditazioni.

“Oriente Eterno”: due parole che, frequentemente ricorrono nella fraseologia tipica della nostra Famiglia, due parole che sprofondano l’animo nella concettualità più misteriosa. Forse non vi è tema che lasci il pensiero umano tanto sgomento, incerto, titubante. 

L’argomento implica necessariamente un intreccio di considerazioni che promanano da conoscenze religiose, filosofiche, naturalistiche. Gli aspetti possono ricondursi a tema di fede, in campo religioso; a razionalismo metafisico, in campo filosofico; ad osservazioni fisiche, in campo di natura–materia.

E’ stato detto, a ragione, che il nostro secolo e troppo affaccendato per potersi occupare del mistero della morte, di ciò che ad Essa possa o non possa seguire.

E’ ormai cospicuo il numero di coloro i quali volgendo le loro cure e sollecitudini alle risorse materiali ed agli onori che la vita esteriore offre, trascurano le problematiche di ordine spirituale che la esistenza propone anche in proiezione futura. Persino le Chiese e le Religioni, il cui scopo prevalente dovrebbe essere la meditazione sull’eterno destino, sembrano dedicare le loro migliori energie all’aumento dei consensi o, nella migliore delle ipotesi, a rendersi utili allo convivenza sociale. Il che sarebbe positivo ed auspicabile se non servisse a relegare in secondo piano l’atto più religiose dell’esistenza: la riflessione sul destino dell’uomo.

“ Virtù grande è il non temere la Morte, di guisa che la Sua immagine non sia di impedimento a ciò che è nostro dovere: operare nella vita”.

Tuttavia l’esistenza non andrebbe considerata solo come una successione di atti volti al raggiungimento di esiti materiali, ma piuttosto come una tendenza al raggiungimento di esiti spirituali nel presente ed ancor più nel futuro, quando il corpo, dissolvendosi, lascia la propria eredità spirituale su questa terra.

Il problema dell’immortalità non può essere abbandonato, né alle dogmatiche predicazioni religiose, né alle facili negazioni di un naturalismo scientifico strettamente empirico; a questi due estremi stanno due categorie di persone per le quali, l’una per l’altra, tale questione non sussiste e sono, in egual misura, al coperto da ogni dubbio: da un lato coloro che sono portatori di una certezza assoluta ed immutabile, derivata dalla rivelazione fideistica di Verità definitive; dall’altro gli alfieri del positivismo, per i quali la sopravvivenza post-mortem è una ipotesi nata morta, una questione indiscutibilmente risolta in senso negativo. Il quesito quindi dell’immortalità può sussistere per coloro che, pur vivendo le più alte aspirazioni dell’animo, hanno bisogno di un rigore scientifico. Ma in che senso va intesa questa ultima espressione “rigore scientifico”? Va forse considerata come un ricorso al metodo razionale per comprovare l’esistenza di una vita ulteriore | o non piuttosto, per noi massoni, quale richiamo alle folgoranti intuizioni, se pur prive di un sostegno razionalizzante, di cui è costellata la nostra esistenza? 

Siamo per questa seconda spiegazione in quanto ci sembra non utilizzabile il metro razionalistico per localizzare entità non misurabili scientificamente. In realtà quando si parla di immortalità ci si riferisce alla immortalità dei Valori, nel senso che dell’Essere Umano e della Sua Opera sopravvivono e si evolvono soltanto questi.

Noi siamo, sì, vivi e tale realtà percepiamo, ma da dove veniamo, dove andiamo non lo sappiamo. La nostra intelligenza è sconfitta dal Mistero; la nostra intelligenza è finita, essa vaga, con la sua limitatezza conoscitiva, nella infinita creazione dell’universo. La nostra vita, che è vita in quanto scaturita da eventi, è la vita stessa dell’universo poiché il nostro corpo (materia) è la materia stessa dell’universo. La vita è trasformazione perché la materia è trasformazione; la vita è divenire, divenire eterno ed anche la Morte non e altro che un aspetto diverso della vita. Nell’Universo non vi è nulla di morto ma tutto è vivo, tutto in continuo mutamento. Vita e morte sono apparenze diverse che sfuggono alla nostra mente, ai nostri sensi, perché la nostra mente, i nostri sensi sono parte nascente e morente della nostra forma corporea, del nostro piano materico.
Noi non siamo in grado di conoscere con la nostra ragione quel fenomeno continuo che si dipana ogni giorno rotto i nostri occhi: la nascita, cioè, e la morte.

La morte e la nascita rappresentano, nel lungo cammino dell’uomo, l’aspetto più singolare di una sconcertante realtà mista a visioni ultraterrene. Già dalle epoche le più remoto, allorché l’uomo ha cominciato a dare sepoltura ai suoi simili, vi ora, nell’individuo, la percezione di un sentimento proiettato in una dimensione al di là della realtà in cui si muoveva; anelito all’immortalità oltre lì passo della morte.

In tutte le epoche, in tutte lo religioni si riscontra una certezza di vita ultra terrena, un desiderio cioè che si manifesta in forme più o meno coerenti con la realtà della vita vissuta. L’Ade presso i Romani, il Paradiso e l’Inferno del Cristianesimo, Stato di Nirvana o beatitudine eterna nell’annichilimento del proprio Io in seno all’Essere Universale nel Buddhismo, Paradiso edonistico nell’Islamismo sono sinteticamente le espressioni di concezioni mistico – religiose dell’al di là che si possono concretizzare con la codificazione ed il rispetto di norme di vita terrena più o meno dogmatiche.

La sperimentazione non ci dice che esiste l’al di là; l’al di là è una creazione di noi ohe viviamo. Nell’espressione “oriente eterno” è implicato il concetto dell’infinito e questo è un concetto che presenta aspetti vari e rientra nel quadro di quei fatti religiosi e mitici che sono stati osservati da antico tempo; fatti che fanno dubitare della stessa esistenza fisica, della stessa esistenza materiale vista appunto da una concettualità relativistica.

Nascita e morte, tempo e spazio tolgono alla razionalità la possibilità, implicita in ogni ricerca, di afferrare la verità, la certezza. Quid ante, quid post? sono interrogativi ai quali non può corrispondere che una intima ricerca soggettiva da parte di ogni essere intelligente.

Assume rilevanza l’ottica nella quale ci si pone; si può partire da alcune semplici considerazioni sulla coscienza dell’uomo, intesa come affermazione dell'io individuale e nello stesso tempo rappresentazione da parte dell’io, di altre individualità a lui estranee ed esterne. La coscienza individuale esplica la propria facoltà di ricevere, connettere, rielaborare o ricordare dati; ci si domanda se tale IO capace di attività psichica, di giudizio, di libera scelta, possa annullarsi dopo la morte. Propendiamo per il no: intendendo che la esistenza temporanea sia conferma dell’essere, che la psiche sia facoltà sottile dell’essere.

Pensiamo che i Fratelli massoni abbiano un rapporto dis-alienato con la morte perché se ne sono riappropriati. Nella società profana non c’è possibilità di realizzare cosa significa morire. Per i Fratelli esiste invece un punto di demistificazione della morte: 1’Iniziazione. Possono in seguito decidere della loro vita totalmente coscienti. E’ necessario entrare in rapporto con la propria morte e uno dei modi è attraverso la meditazione nel Tempio.

Tempio: rappresentazione dell’universo, punto di incontro fra macrocosmo esterno e macrocosmo interno; i Suoi Simboli catalizzano “Id quod est superius et inferius”. L’Oriente Eterno è uno di questi simboli.

Dove è la Luce ivi è la Forza. Dove è il Fuoco ivi è anche l’immutabile origine di ogni trasformazione. L’Uomo è trasformazione. Noi diciamo infatti: “il fratello è passato all’Oriente Eterno”. Il Fratello non muore; noi avvertiamo solo che un anello della Catena si è spezzato. La parola, cioè la comune Fede, è smarrita. Il fratello passato all’Oriente eterno ci da quindi ansia di ricerca che non è mestizia. Ci da fiducia il fatto che la parola è solamente “smarrita” e quindi esiste. Dipende solo da noi il ritrovarla. Noi sostiamo ancora in ricerca. Noi fissiamo ed usiamo ancora il compasso. Lui fisserà all’Oriente Eterno ciò che la sua nuova Iniziazione gli farà sentire: sarà una nuova perfezione della nostra perfezione? Con quale involucro corporeo o meno avvenga questo noi non sappiamo perché non lo possiamo sapere. Degli infiniti involucri noi ora siamo limitati ad uno solo. L’affetto terreno di questo ci da il dolore della dipartita. Il ricordo di questo sopprime il dolore: è vita. Il ricordo, quindi, supera l’affetto: vale a dire che la vita esclude la morte. Il Fratello lascia il vuoto di un anello spezzato della Catena: è il richiamo affinché un altro fratello colmi questo vuoto. A noi lascia un compito dì perfezione: la dipartita di un Fratello è precisa indicazione di dovere per i Fratelli che rimangono. La perfezione di questo dovere di tutti è in tutti. Il passaggio all’Oriente eterno è trasposizione di Luce. Dove è la Luce ivi è la Forza. Dove è il Fuoco ivi è anche la immutabile origine di ogni trasformazione. Chi è destinato a trasformarsi incessantemente non potrà mai comprendere cosa sia questa trasformazione. L’avverte non per erudizione, ma per intuizione.

L’anello della catena è spezzato ma un fratello che si sostituisca a chi è uscito può rinsaldarne la compattezza.

La parola non è svanita, è soltanto perduta.

A noi Fratelli il dovere di ritrovarla.

La Loggia Garibaldi ha lavorato sulla tavola e il Segretario ha sintetizzato in una specie di “risposta” inviata ai fratelli della Carducci.

Al Fratelli della R. L. “G. Carducci” n. 103

Carissimi Fratelli,

gli operai forlivesi hanno lavorato a lungo sulla vostra tavola “L’Oriente Eterno” e hanno contribuito alla costruzione del Tempio con le seguenti pietre.

La moltitudine degli uomini è portata a cercare il concreto quotidiano e non si preoccupa del resto. I Liberi Muratori si distinguono per l’interesse rivolto a ciò che trascenda la realtà quotidiana! Essi sono per l’essere invece che per l’avere (citando il dilemma dello psicanalista Erich Fromm) .

Con la morte termina il corpo fisico. Che fine fa tutto il bagaglio di animico e spirituale che ci accompagna? C’è una parte di noi che può dirsi puro spirito, ma anche una parte composta da sensazioni, sentimenti: questa seconda componente muore oppure no? Non importa rispondere, importa invece rivolgersi al nostro interno/e lavorare per cambiarci.

Forse la morte fa paura perché si lascia il noto per l’ignoto, perché si abbandonano gli affetti che ciascuno di noi ha creato nella vita.

Una delle molle che spingono gli uomini è il terrore della morte. Le religioni offrono un palliativo, e l’uomo spesso non cerca altro, poiché psicologicamente è incapace di considerare la propria morte.
Tutte la religioni fanno balenare la possibilità di una vita dopo la morte. Molte, per tenere i fedeli soggiogati, si basano su un futuro castigo o premio.

Ogni religione ha instaurato dogmi, quasi volesse impedire all’uomo di indagare per trovare la propria verità. Infatti l’uomo ohe ricerca è libero, mentre la religione vuole seguaci, magari anche fanatici. Il seguace – colui che segue altri – non può essere un uomo libero.
La morte è un sipario nero, non si vede cosa c’è al di là. Forse è opportuno parlare, invece che di paura della morte, di amarezza per l’ignoto. Dall’amarezza nasce la paura, che ormai nell’uomo è inculcata quasi per eredità atavica: ogni religione ha infatti basata su essa la propria morale (v. il “post mortem: si è insistito spesso sulla paura della punizione come conseguenza dei propri errori; “Se hai sbagliato, pagherai”).

La morte non può essere spiegata con la ragione. Dove la ragione non arriva comincia ad operare la nostra “razionalità interna”, intendendo con questo termine quella facoltà che aiuta a sondare dentro di noi dove non è possibile giungere altrimenti. E’ una facoltà diversa da individuo ad individuo che fa parte del nostro segreto e costituisce il supporto necessario per la nostra meditazione.

La morte è un cambiamento di stato. Una spunto alle meditazioni dei fratelli può essere l’analogia della vita umana con il ciclo dell'acqua. Il mare è composto da innumerevoli gocce di acqua, che evaporano e si accumulano in nuvole. Da nuvole si trasformano in pioggia e cadono sul terreno, dove si arricchiscono di minerali e inglobano anche scorie. Tramite ruscelli, torrenti e fiumi ritornano al mare, nel quale si annullano e si “purificano” abbandonando la loro scorie e preparandosi a un nuovo ciclo.

L’iniziazione è demistificazione della morte nel senso che le restituisce il suo significato di trasformazione, di passaggio da uno stato ad un altro (si pensi alla morte come condizione essenziale per ricevere la luce nella iniziazione muratoria, o al simbolo della porta tracciato in molte tombe).

Il problema della morte non si innesta solo sulla paura, ma anche sulla vita. Non può esserci la morte senza la vita e non può esserci la vita senza la motte. La morte è una trasformazione. Del resto lo insegna pure la materia (la componente del corpo fisico): essa non si crea e non si distrugge, ma si trasforma.

L’uomo deve operare in questa vita indipendentemente dalle eventuali conseguenze dopo la morte (paradiso, inferno, reincarnazioni successive, ecc.). Solo se compie lo sforzo continuo e sincero di cambiarsi e migliorarsi può affrontare serenamente quel cambiamento di stato che i profani chiamano morte e i Liberi Muratori passaggio all’Oriente Eterno.

La Massoneria aiuta ad affrontare la paura che ci portiamo dentro e che continueremo ad avere fino a quando non avremo dato la nostra spiegazione.

L’aiuto nella ricerca viene anche dal sentire vicino i Fratelli mentre si comunicano i propri risultati e si ascoltano i loro, per avere spunti per le proprie meditazioni.

L’Oriente Eterno è un simbolo, e come tale in esso si trova l’unificazione di due opposti: da una parte il timore innato della morta (e quindi il tentativo di proiettare la propria sopravvivenza individuale oltre il limite di questa vita), dall’altra la consapevolezza della immortalità di un certo “quid” che è in noi, del quale non sappiamo precisare l’essenza, ma sappiamo solo che esiste.

Va precisata l’identificazione della Parola con la Fede comune (vedi: “la Parola, cioè la comune Fede, è smarrita”). L’iniziato cerca la conoscenza, non la fede. Chi sa non ha bisogno di credere, perché sa: è il credente, il fedele che deve credere, perché non sa. La differenza tra Iniziato e fedele è sottolineata anche nell’insegnamento di un maestro: “Là dove il devoto si pente, l’iniziato si cambia”.









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