La Loggia Garibaldi n. 520 di Forlì continuò la riflessione.
Il tema che la L. Carducci questa sera pone all’attenzione ed alla riflessione è
il frutto del comune lavoro di alcuni appartenenti a questa Officina
ove ognuno di essi ha apportato quanto di intimo è scaturito dalle
proprie meditazioni.
“Oriente Eterno”: due parole che,
frequentemente ricorrono nella fraseologia tipica della nostra
Famiglia, due parole che sprofondano l’animo nella concettualità
più misteriosa. Forse non vi è tema che lasci il pensiero umano
tanto sgomento, incerto, titubante.
L’argomento implica
necessariamente un intreccio di considerazioni che promanano da
conoscenze religiose, filosofiche, naturalistiche. Gli aspetti
possono ricondursi a tema di fede, in campo religioso; a
razionalismo metafisico, in campo filosofico; ad osservazioni
fisiche, in campo di natura–materia.
E’ stato detto, a ragione, che il
nostro secolo e troppo affaccendato per potersi occupare del mistero
della morte, di ciò che ad Essa possa o non possa seguire.
E’ ormai cospicuo il numero di
coloro i quali volgendo le loro cure e sollecitudini alle risorse
materiali ed agli onori che la vita esteriore offre, trascurano le
problematiche di ordine spirituale che la esistenza propone anche in
proiezione futura. Persino le Chiese e le Religioni, il cui scopo
prevalente dovrebbe essere la meditazione sull’eterno destino,
sembrano dedicare le loro migliori energie all’aumento dei
consensi o, nella migliore delle ipotesi, a rendersi utili allo
convivenza sociale. Il che sarebbe positivo ed auspicabile se non
servisse a relegare in secondo piano l’atto più religiose
dell’esistenza: la riflessione sul destino dell’uomo.
“ Virtù grande è il non temere la
Morte, di guisa che la Sua immagine non sia di impedimento a ciò
che è nostro dovere: operare nella vita”.
Tuttavia l’esistenza non andrebbe
considerata solo come una successione di atti volti al
raggiungimento di esiti materiali, ma piuttosto come una tendenza al
raggiungimento di esiti spirituali nel presente ed ancor più nel
futuro, quando il corpo, dissolvendosi, lascia la propria eredità
spirituale su questa terra.
Il problema dell’immortalità non
può essere abbandonato, né alle dogmatiche predicazioni religiose,
né alle facili negazioni di un naturalismo scientifico strettamente
empirico; a questi due estremi stanno due categorie di persone per
le quali, l’una per l’altra, tale questione non sussiste e sono,
in egual misura, al coperto da ogni dubbio: da un lato coloro che
sono portatori di una certezza assoluta ed immutabile, derivata
dalla rivelazione fideistica di Verità definitive; dall’altro gli
alfieri del positivismo, per i quali la sopravvivenza post-mortem è
una ipotesi nata morta, una questione indiscutibilmente risolta in
senso negativo. Il quesito quindi dell’immortalità può
sussistere per coloro che, pur vivendo le più alte aspirazioni
dell’animo, hanno bisogno di un rigore scientifico. Ma in che
senso va intesa questa ultima espressione “rigore scientifico”?
Va forse considerata come un ricorso al metodo razionale per
comprovare l’esistenza di una vita ulteriore | o non piuttosto,
per noi massoni, quale richiamo alle folgoranti intuizioni, se pur
prive di un sostegno razionalizzante, di cui è costellata la nostra
esistenza?
Siamo per questa seconda spiegazione in quanto ci sembra
non utilizzabile il metro razionalistico per localizzare entità non
misurabili scientificamente. In realtà quando si parla di
immortalità ci si riferisce alla immortalità dei Valori, nel senso
che dell’Essere Umano e della Sua Opera sopravvivono e si evolvono
soltanto questi.
Noi siamo, sì, vivi e tale realtà
percepiamo, ma da dove veniamo, dove andiamo non lo sappiamo. La
nostra intelligenza è sconfitta dal Mistero; la nostra intelligenza
è finita, essa vaga, con la sua limitatezza conoscitiva, nella
infinita creazione dell’universo. La nostra vita, che è vita in
quanto scaturita da eventi, è la vita stessa dell’universo poiché
il nostro corpo (materia) è la materia stessa dell’universo. La
vita è trasformazione perché la materia è trasformazione; la vita
è divenire, divenire eterno ed anche la Morte non e altro che un
aspetto diverso della vita. Nell’Universo non vi è nulla di morto
ma tutto è vivo, tutto in continuo mutamento. Vita e morte sono
apparenze diverse che sfuggono alla nostra mente, ai nostri sensi,
perché la nostra mente, i nostri sensi sono parte nascente e
morente della nostra forma corporea, del nostro piano materico.
Noi non siamo in grado di conoscere
con la nostra ragione quel fenomeno continuo che si dipana ogni
giorno rotto i nostri occhi: la nascita, cioè, e la morte.
La morte e la nascita rappresentano,
nel lungo cammino dell’uomo, l’aspetto più singolare di una
sconcertante realtà mista a visioni ultraterrene. Già dalle epoche
le più remoto, allorché l’uomo ha cominciato a dare sepoltura ai
suoi simili, vi ora, nell’individuo, la percezione di un
sentimento proiettato in una dimensione al di là della realtà in
cui si muoveva; anelito all’immortalità oltre lì passo della
morte.
In tutte le epoche, in tutte lo
religioni si riscontra una certezza di vita ultra terrena, un
desiderio cioè che si manifesta in forme più o meno coerenti con
la realtà della vita vissuta. L’Ade presso i Romani, il Paradiso
e l’Inferno del Cristianesimo, Stato di Nirvana o beatitudine
eterna nell’annichilimento del proprio Io in seno all’Essere
Universale nel Buddhismo, Paradiso edonistico nell’Islamismo sono
sinteticamente le espressioni di concezioni mistico – religiose
dell’al di là che si possono concretizzare con la codificazione
ed il rispetto di norme di vita terrena più o meno dogmatiche.
La sperimentazione non ci dice che
esiste l’al di là; l’al di là è una creazione di noi ohe
viviamo. Nell’espressione “oriente eterno” è implicato il
concetto dell’infinito e questo è un concetto che presenta
aspetti vari e rientra nel quadro di quei fatti religiosi e mitici
che sono stati osservati da antico tempo; fatti che fanno dubitare
della stessa esistenza fisica, della stessa esistenza materiale
vista appunto da una concettualità relativistica.
Nascita e morte, tempo e spazio
tolgono alla razionalità la possibilità, implicita in ogni
ricerca, di afferrare la verità, la certezza. Quid ante, quid
post? sono interrogativi ai quali non può corrispondere che una
intima ricerca soggettiva da parte di ogni essere intelligente.
Assume rilevanza l’ottica nella
quale ci si pone; si può partire da alcune semplici considerazioni
sulla coscienza dell’uomo, intesa come affermazione dell'io
individuale e nello stesso tempo rappresentazione da parte dell’io,
di altre individualità a lui estranee ed esterne. La coscienza
individuale esplica la propria facoltà di ricevere, connettere,
rielaborare o ricordare dati; ci si domanda se tale IO capace di
attività psichica, di giudizio, di libera scelta, possa annullarsi
dopo la morte. Propendiamo per il no: intendendo che la esistenza
temporanea sia conferma dell’essere, che la psiche sia facoltà
sottile dell’essere.
Pensiamo che i Fratelli massoni
abbiano un rapporto dis-alienato con la morte perché se ne
sono riappropriati. Nella società profana non c’è possibilità
di realizzare cosa significa morire. Per i Fratelli esiste invece un
punto di demistificazione della morte: 1’Iniziazione. Possono in
seguito decidere della loro vita totalmente coscienti. E’
necessario entrare in rapporto con la propria morte e uno dei modi è
attraverso la meditazione nel Tempio.
Tempio: rappresentazione
dell’universo, punto di incontro fra macrocosmo esterno e
macrocosmo interno; i Suoi Simboli catalizzano “Id quod est
superius et inferius”. L’Oriente Eterno è uno di questi
simboli.
Dove è la Luce ivi è la Forza. Dove
è il Fuoco ivi è anche l’immutabile origine di ogni
trasformazione. L’Uomo è trasformazione. Noi diciamo infatti: “il
fratello è passato all’Oriente Eterno”. Il Fratello non muore;
noi avvertiamo solo che un anello della Catena si è spezzato. La
parola, cioè la comune Fede, è smarrita. Il fratello passato
all’Oriente eterno ci da quindi ansia di ricerca che non è
mestizia. Ci da fiducia il fatto che la parola è solamente
“smarrita” e quindi esiste. Dipende solo da noi il ritrovarla.
Noi sostiamo ancora in ricerca. Noi fissiamo ed usiamo ancora il
compasso. Lui fisserà all’Oriente Eterno ciò che la sua nuova
Iniziazione gli farà sentire: sarà una nuova perfezione della
nostra perfezione? Con quale involucro corporeo o meno avvenga
questo noi non sappiamo perché non lo possiamo sapere. Degli
infiniti involucri noi ora siamo limitati ad uno solo. L’affetto
terreno di questo ci da il dolore della dipartita. Il ricordo di
questo sopprime il dolore: è vita. Il ricordo, quindi, supera
l’affetto: vale a dire che la vita esclude la morte. Il Fratello
lascia il vuoto di un anello spezzato della Catena: è il richiamo
affinché un altro fratello colmi questo vuoto. A noi lascia un
compito dì perfezione: la dipartita di un Fratello è precisa
indicazione di dovere per i Fratelli che rimangono. La perfezione di
questo dovere di tutti è in tutti. Il passaggio all’Oriente
eterno è trasposizione di Luce. Dove è la Luce ivi è la Forza.
Dove è il Fuoco ivi è anche la immutabile origine di ogni
trasformazione. Chi è destinato a trasformarsi incessantemente non
potrà mai comprendere cosa sia questa trasformazione. L’avverte
non per erudizione, ma per intuizione.
L’anello della catena è spezzato ma
un fratello che si sostituisca a chi è uscito può rinsaldarne la
compattezza.
La parola non è svanita, è soltanto
perduta.
Al Fratelli della R. L. “G.
Carducci” n. 103
Carissimi Fratelli,
gli operai forlivesi hanno lavorato a
lungo sulla vostra tavola “L’Oriente Eterno” e hanno
contribuito alla costruzione del Tempio con le seguenti pietre.
La moltitudine degli uomini è portata
a cercare il concreto quotidiano e non si preoccupa del resto. I
Liberi Muratori si distinguono per l’interesse rivolto a ciò che
trascenda la realtà quotidiana! Essi sono per l’essere invece che
per l’avere (citando il dilemma dello psicanalista Erich Fromm) .
Con la morte termina il corpo fisico.
Che fine fa tutto il bagaglio di animico e spirituale che ci
accompagna? C’è una parte di noi che può dirsi puro spirito, ma
anche una parte composta da sensazioni, sentimenti: questa seconda
componente muore oppure no? Non importa rispondere, importa invece
rivolgersi al nostro interno/e lavorare per cambiarci.
Forse la morte fa paura perché si
lascia il noto per l’ignoto, perché si abbandonano gli affetti
che ciascuno di noi ha creato nella vita.
Una delle molle che spingono gli
uomini è il terrore della morte. Le religioni offrono un
palliativo, e l’uomo spesso non cerca altro, poiché
psicologicamente è incapace di considerare la propria morte.
Tutte la religioni fanno balenare la
possibilità di una vita dopo la morte. Molte, per tenere i fedeli
soggiogati, si basano su un futuro castigo o premio.
Ogni religione ha instaurato dogmi,
quasi volesse impedire all’uomo di indagare per trovare la propria
verità. Infatti l’uomo ohe ricerca è libero, mentre la religione
vuole seguaci, magari anche fanatici. Il seguace – colui che segue
altri – non può essere un uomo libero.
La morte è un sipario nero, non si
vede cosa c’è al di là. Forse è opportuno parlare, invece che
di paura della morte, di amarezza per l’ignoto. Dall’amarezza
nasce la paura, che ormai nell’uomo è inculcata quasi per eredità
atavica: ogni religione ha infatti basata su essa la propria morale
(v. il “post mortem: si è insistito spesso sulla paura della
punizione come conseguenza dei propri errori; “Se hai sbagliato,
pagherai”).
La morte non può essere spiegata con
la ragione. Dove la ragione non arriva comincia ad operare la nostra
“razionalità interna”, intendendo con questo termine quella
facoltà che aiuta a sondare dentro di noi dove non è possibile
giungere altrimenti. E’ una facoltà diversa da individuo ad
individuo che fa parte del nostro segreto e costituisce il supporto
necessario per la nostra meditazione.
La morte è un cambiamento di stato.
Una spunto alle meditazioni dei fratelli può essere l’analogia
della vita umana con il ciclo dell'acqua. Il mare è composto da
innumerevoli gocce di acqua, che evaporano e si accumulano in
nuvole. Da nuvole si trasformano in pioggia e cadono sul terreno,
dove si arricchiscono di minerali e inglobano anche scorie. Tramite
ruscelli, torrenti e fiumi ritornano al mare, nel quale si annullano
e si “purificano” abbandonando la loro scorie e preparandosi a
un nuovo ciclo.
L’iniziazione è demistificazione
della morte nel senso che le restituisce il suo significato di
trasformazione, di passaggio da uno stato ad un altro (si pensi alla
morte come condizione essenziale per ricevere la luce nella
iniziazione muratoria, o al simbolo della porta tracciato in molte
tombe).
Il problema della morte non si innesta
solo sulla paura, ma anche sulla vita. Non può esserci la morte
senza la vita e non può esserci la vita senza la motte. La morte è
una trasformazione. Del resto lo insegna pure la materia (la
componente del corpo fisico): essa non si crea e non si distrugge,
ma si trasforma.
L’uomo deve operare in questa vita
indipendentemente dalle eventuali conseguenze dopo la morte
(paradiso, inferno, reincarnazioni successive, ecc.). Solo se compie
lo sforzo continuo e sincero di cambiarsi e migliorarsi può
affrontare serenamente quel cambiamento di stato che i profani
chiamano morte e i Liberi Muratori passaggio all’Oriente Eterno.
La Massoneria aiuta ad affrontare la
paura che ci portiamo dentro e che continueremo ad avere fino a
quando non avremo dato la nostra spiegazione.
L’aiuto nella ricerca viene anche
dal sentire vicino i Fratelli mentre si comunicano i propri
risultati e si ascoltano i loro, per avere spunti per le proprie
meditazioni.
L’Oriente Eterno è un simbolo, e
come tale in esso si trova l’unificazione di due opposti: da una
parte il timore innato della morta (e quindi il tentativo di
proiettare la propria sopravvivenza individuale oltre il limite di
questa vita), dall’altra la consapevolezza della immortalità di
un certo “quid” che è in noi, del quale non sappiamo precisare
l’essenza, ma sappiamo solo che esiste.
Va precisata l’identificazione della
Parola con la Fede comune (vedi: “la Parola, cioè la comune Fede,
è smarrita”). L’iniziato cerca la conoscenza, non la fede. Chi
sa non ha bisogno di credere, perché sa: è il credente, il fedele
che deve credere, perché non sa. La differenza tra Iniziato e
fedele è sottolineata anche nell’insegnamento di un maestro: “Là
dove il devoto si pente, l’iniziato si cambia”.
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