Non potendo razionalizzare l’esperienza della morte, possiamo solo suggerire tramite simboli (osservazioni del mondo, della natura) che riescono a comunicare (almeno in parte) anche ciò che razionale non è.
Ci sono fondamentalmente due concezioni del tempo: da una parte un tempo lineare con un principio ed una fine, dall’altra un tempo circolare.
[Dopo avere scritto queste righe ho trovato una citazione che ritengo opportuno riportare: Ho cominciato parlando del modo occidentale di concepire il tempo. Ho detto che noi concepiamo il tempo in modo lineare, come un fiume che fluisce dal passato al presente e al futuro, mentre Nompenekit [un indiano Pawtucket-Micmac] lo concepisce come un lago o uno stagno che contiene tutti gli eventi (John Hanson Mitchell, Ceremonial Time: Fifteen Thousand Years on One Square Mile, 1984) citato in William Least Heat-Moon, Prateria, Torino, 1994.p. 290].
La prima concezione è tipica del cristianesimo: il mondo fu creato illud tempus e avrà una fine: dalla creazione al giudizio universale; tra i due estremi si svolge la vita di ogni essere, uomo compreso.
La seconda concezione è molto più antica. Probabilmente risale alla nascita dell'umanità. Quale significato infatti potevano avere quelle tracce di colore e quegli utensili lasciati in tombe nella Galilea di novantamila anni fa se non la certezza che il defunto se ne sarebbe servito? Innumerevoli sono le tombe preistoriche corredate da oggetti che accompagnano il morto: resti di animali, ornamenti di osso, ciottoli colorati. In tutte il denominatore comune appare la credenza nella continuità della vita dopo l’evento morte, in un tempo quindi che non termina e non si interrompe, ma continua ed eventualmente ritorna. Una tale certezza senza dubbio proveniva dall’osservare la natura e sentirsene parte essenziale. L’osservazione dell’alternarsi di luce e buio, di caldo e freddo, il moto del sole e della luna, il ritorno degli animali migratori che seguivano anno dopo anno le stesse piste, tutto questo ha probabilmente suggerito l’idea di un tempo circolare e dell’eterno ritorno.
Tralascio richiami ad altre concezioni del tempo. Al camminatore comunque può interessare la situazione che si pone all’uomo quando si trova di fronte ad esperienze che non possono essere ricondotte alle succitate concezioni del tempo. Un esempio per tutti si riferisce alle particolari esperienze (che ciascuno ha sperimentato più di una volta) del tempo nei sogni: spesso non si tratta né di linearità né di circolarità, ma di qualcosa d’altro. Si veda il riferimento a Nompenekit (citato sopra). Oriana Fallaci ha colto il senso del problema quando osserva:
Ma il tempo non è una realtà oggettiva, sempre uguale a sé stessa. Non si misura col calendario e con l’orologio, col mutare delle stagioni e col tramontare del sole: la sua dimensione cambia come un elastico che il nostro io muove a seconda degli stati d’animo. A volte è infinitamente lungo, passa con una lentezza che trasforma i minuti in secoli. A volte è infinitamente breve, passa con una velocità pari alla velocità della luce. E a volte si ferma, interrotto da qualcosa che lo impietrisce. Un grosso dolore, una sorpresa troppo violenta, un trauma. Il suo[tempo] s’era fermato con le parole tua-anzi-non-più-tua-Ninette, fermandosi gli aveva impedito di partecipare a qualsiasi cosa avvenisse nel tempo del calendario e dell’orologio…[Oriana Fallaci, Insciallah, Milano, 2000, p. 517].
Per parte sua Lawrence in altro contesto aveva rilevato:
Per poter apprezzare il modo di pensare pagano, è necessario abbandonare il nostro metodo che si fonda su di un processo che parte da un principio per andare verso un fine, e consentire alla nostra mente di muoversi attraverso cicli o di vagare qua e là su gruppi di immagini. Il nostro concetto del tempo come eterna sequenza, diretta e lineare, ha deformato la nostra coscienza. L'idea pagana del tempo come di un moto ciclico è molto più libera, consente movimenti verso l'alto e il basso e concede alla mente di mutare di condizione liberamente, a ogni istante. Un ciclo finisce e noi possiamo scendere o salire ad un altro livello ed essere subito in un altro mondo nuovo. Invece, con il nostro sistema di continuità di tempo, siamo condannati a procedere con fatica verso la meta successiva.[David Herbert Lawrence, Apocalisse, Roma, 1995, p. 51].
L’osservazione dei fenomeni celesti suggerisce una concezione circolare del tempo.
Il solstizio d’inverno è quel periodo dell’anno nel quale il buio occupa la maggior parte del giorno e sembra prendere il sopravvento sulla luce. Ogni giorno il periodo di buio è sempre più lungo fino a che ci sembra quasi che il sole, nel percorrere la sua traiettoria in cielo, non scenda più, ma quasi si fermi (solstizio appunto da sol stare). Dopo qualche giorno si avverte l’aumentare del periodo di luce. Il primo giorno in cui si percepisce l’aumento è appunto il 25 dicembre, data nella quale la cristianità ha fissato la nascita di Gesù.
Il periodo di luce aumenta sempre più fino a raggiungere la durata massima al solstizio d’estate per poi diminuire fino al minimo al solstizio d’inverno e così via.
Ma anche quando il periodo di buio è più lungo, sappiamo che è prossimo un aumento di luce; ugualmente al momento del solstizio d’estate siamo consapevoli che in nuce è contenuto l’aumento di buio. E’ un binomio inscindibile, indice del binario nel quale si sviluppa la vita e sul quale dobbiamo meditare.
Tuttavia l’uomo occidentale di oggi, plasmato per duemila anni da una religione che ha inculcato il terrore della morte e della eventuale se non probabile punizione divina, forse per autodifesa o come soluzione di comodo, ha scelto una via profondamente disumana: ha cancellato la morte dalla propria vita quotidiana, ritenendo così di sterilizzare ed eliminare le proprie paure e angosce.
Purtroppo per lui la vita inesorabilmente procede e la morte, scacciata in ogni modo, si rivela invece prepotentemente là dove l’uomo meno l’aspetta.
Cerca forse di prepararsi, ma il lavoro è difficile, perché implica una attività nella quale gli strumenti della razionalità ben poco possono e gli spasimi della non razionalità se non le paure dell’inconscio emergono prepotenti e inarrestabili.
L’uomo deve affrontare il problema della vita e della morte cambiando completamente l’ottica nella quale da troppo tempo si è posto. Non so suggerire come, posso solo indicare in che modo io cerco di metabolizzare la mia morte, quell’evento che in futuro porrà fine al corpo fisico che il mio io razionale considera parte essenziale del mio sé.
Tutto partì diversi anni fa con un sogno o forse quel sogno fu il segno tangibile che mi fece prendere coscienza di un lavoro che stavo compiendo.
I sogni infatti credo siano messaggi provenienti dall'inconscio. Genericamente si potrebbe proprio affermare che la prima tappa è rendere conscio l'inconscio mediante un atto di volontà, che può ben avviarsi perfino con un sogno. Quel sogno mi ha fatto capire come simboli e ritualismi possano anche avere avuto origini "lontane", cioè possano essere scaturiti da una "regione" comune a tutta l'umanità ben più profonda dello junghiano psicologico inconscio collettivo.
Sognai dunque che tutti gli uomini dovevano morire entro breve tempo. Invece di aspettare passivamente la morte, decisi, assieme ad un amico, di morire dignitosamente, di nostra mano.
Ci preparammo dunque al trapasso, ritirandoci in casa, serrando porte e finestre, staccando anche l'interruttore generale dell'elettricità e chiudendo le condutture dell'acqua. Per non soffrire il freddo inchiodammo al pavimento le zampe di due animali dal pelo soffice e caldo (pecore o capre), in modo da potercisi infilare sotto e restare riparati dal loro corpo. L'amico uccise due uccelli (gufi o falchi), pure loro con le zampe inchiodate al pavimento, fracassando loro il cranio a colpi di bastone: questi animali dell'aria infatti avrebbero dovuto precederci nel trapasso per annunciare il nostro arrivo. Anche se la scena brutale mi disturbò, non intervenni in quanto consapevole della necessità di quelle morti violente, compiute proprio in quel modo...
Ricordo che nel sogno mi colpì soprattutto l'atmosfera di accettazione della necessità di morire e intuii che la scelta di determinati simboli potesse aver avuto anche una origine onirica o almeno non razionale. Non tanto per sminuire l'importanza del simbolo (sarebbe infatti stata una scelta, almeno in parte, inconsapevole), quanto per ricercare la comune fonte di tutti gli uomini e di tutti i popoli (anche i più lontani, di non facile, se non impossibile, comunicazione tra loro). Un esempio significativo è certo dato dalla presenza di piramidi sia in Egitto che nel Messico, ma praticamente la maggior parte dei simboli raffigura gli stessi significati presso la quasi totalità dei popoli antichi.
Più esplicitamente tracce di origini oniriche sono presenti in molti campi. Ricordo l’ispirazione onirica del chimico tedesco Friedrich August Kekulè sulla struttura dell'anello aromatico degli idrocarburi. Ossola riporta una pagina di Kekulè:
Vedevo gli atomi oscillare davanti ai miei occhi... L'occhio del mio spirito reso più acuto da numerose visioni di questo genere riuscì a distinguere immagini ingrandite di forme diverse e molteplici: lunghe file riunite insieme, tutto ciò si muoveva come fanno i serpenti, strisciando e avvinghiandosi gli uni agli altri. D'un tratto uno di questi serpenti afferrò la propria coda e l'immagine volteggiò davanti ai miei occhi... Mi ridestai colpito da una folgore.[Franco Ossola, Ispirazione onirica in Abstracta, Roma, gennaio 1986, p. 9 - vedi anche Antonio Caronia, Le due culture, in SE - Scienza Esperienza, Milano, luglio-agosto 1986].
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